Il relativismo laico di Ernesto Rossi

Volentieri riceviamo e pubblichiamo l’ intervento tenuto dal prof. Gaetano Pecora in occasione della presentazione del volume AA.VV.“Ernesto Rossi. Un democratico europeo” (Rubbettino editore, 2009), che si è svolto a Roma alla Casa della Resistenza e della Memoria l’ 11 dicembre 2009.

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Questo volume, così amorevolmente curato da Antonella Braga e Simonetta Michelotti (1), si segnala per molte virtù: ma una in particolare spicca sulle altre. Ed è che grazie al contributo di numerosi studiosi, il lettore può rimontare la corrente ed attingere alle sorgenti, alle fonti prime che ispiravano  l’azione di Ernesto Rossi, specie quando egli tirava per il bavero le barbe più venerande, denunciandone le malefatte e sbugiardandone le falsità. Capiremmo poco i sarcasmi de “Il Malgoverno”, comprenderemmo male l’aggressività di “Aria fritta”, intenderemmo poco e male i puntuti giudizi di “Settimo: non rubare” (tanto per citare i suoi titoli più famosi), se dimenticassimo che sarcasmi, denunce e polemiche a Rossi venivano per diritta via da letture intense, meditatissime e di cui il presente volume rende, fedele, la testimonianza. E diciamo la verità: in un’epoca come la nostra, dove si indulge al gusto plebeo di far colpo sul pubblico con il botto delle provocazioni clamorose, in un’epoca siffatta non è poco dimostrare per tabulas che uno dei più affilati tra i nostri polemisti fu precisamente un uomo di studi e di principi. E tra questi principi ce ne era uno in particolare che batteva sempre sullo stesso perno: non esistono valori e verità assolute, che come tali possano pretendere di dispiegare i loro effetti  sempre e dappertutto, in ogni età e per ogni luogo.

Valori e verità, sì, ma relative e dunque cangianti nel tempo e nello spazio: a questa convinzione si arpionava Ernesto e proprio da qui spremeva i succhi più autentici del suo laicismo liberale. “Il mio liberalismo – scrisse nel 1940 – era ed è l’espressione politica del mio scetticismo e della relatività che attribuisco ad ogni verità morale” (2). Perché? Perché, e in che senso, il relativismo (il mai sufficientemente abominato relativismo) può essere veicolo di libertà? Ma prima ancora: come è che Ernesto Rossi contestava la possibilità di procurare un fondamento oggettivo alle norme giuridiche e ai valori morali?  Egli, nel carcere fascista, non poté aver sentore degli argomenti che in quel giro di tempo venivano impiegati contro l’etica dimostrativa, contro la pretesa cioè di dimostrare scientificamente un qualunque sistema del diritto o della morale. Pure, per proprio conto e con argomenti rigorosissimi, smantellò il meccanismo di coloro che stringevano in armatura di verità gli istituti giuridici e i valori etici; e che li corazzavano di verità questi istituti e questi valori radicandoli nel fatto incontestabile, oggettivo, che tutti (a loro dire) li avrebbe legittimati: il fatto della natura umana. Istituti e valori, dunque, giusti (universalmente e incontestabilmente giusti) perché conformi alla natura; e meglio ancora: perché inscritti, perché sigillati, perchè scolpiti nella natura dell’uomo. Da seguace della scuola empirica, Ernesto Rossi non ebbe difficoltà a denunciare il vizio di questo giusnaturalismo che magari assumeva sembianze di volta in volta diverse, e che pure rimaneva sempre se stesso nell’erronea derivazioni dei valori dai fatti, e da quel fatto in particolare che tutti li riassumeva, il fatto della natura umana appunto.

I maggiori problemi della vita morale – ebbe a scrivere nel reclusorio di Pallanza – “non si possono risolvere senza ammettere per convenzione alcune premesse. Dico per convenzione perché non credo che si possa trovare alcun criterio scientifico per stabilire una scala di valori rispetto ai fini che si possono proporre agli uomini… Queste premesse possono essere d’accordo con la nostra coscienza, con la coscienza di noi singoli, ma non possono essere d’accordo con i fatti perché sono su un piano diverso”. (3)

Precisamente: sono su un piano diverso. Il punto è tutto qui: alla realtà – compresa la realtà della natura umana (ammesso e non concesso che se ne possa fornire una caratterizzazione univoca) alla realtà, dicevo, non è immanente alcun valore; mondo della realtà e mondo dei valori sono universi distinti e non comunicanti; non si può derivare un valore da un fatto o, come anche si dice, non è lecito inferire un giudizio di valore da un giudizio di fatto. Perché? Vale la pena premere sull’argomento, anche a prezzo di qualche noiosità didascalica,  vale la pena insistere sull’argomento per l’importanza di quello che si dirà dopo (o meglio: che Ernesto Rossi dirà dopo).

Dunque, perché non è lecito derivare un giudizio di valore da un giudizio di fatto? Per giudizio di fatto si intende quel giudizio che si esprime con il seguente enunciato: “è vero che…”. E’ un enunciato che espone, rappresenta, descrive qualcosa. Il giudizio di fatto è un giudizio descrittivo. Per giudizio di valore si intende quel giudizio che si esprime con il seguente enunciato: “è bene che…”. E’ un enunciato che consiglia, che raccomanda, che prescrive qualcosa. Il giudizio di valore è un enunciato prescrittivo. Ora, non si può fondare un giudizio di valore, se non ricorrendo ad un altro giudizio di valore, in un catena di richiami che può essere lunga quanto si vuole ma che sempre termina con il richiamo ad un valore ultimo, non ulteriormente fondabile, ed in quanto infondabile non oggettivo.

Facciamo un esempio: perché è bene che il Napoli vinca lo scudetto? Perché è bene che vinca la squadra più meritevole. Perché è bene che vincano i più meritevoli? Perché giustizia vuole che primeggino i migliori. Perché è bene seguire i dettami della giustizia? Perché è bene… ecc.ecc.

Come si vede, da un “è bene” siamo rinviati ad un altro “è bene”, mai ad un “è vero”; da un valore cioè non risaliamo ad un fatto ma siamo risospinti ad un altro valore, e da qui ad un valore ulteriore e poi incontro ad un altro valore ancora finché… finchè ci troveremo dinanzi ad un valore oltre il quale non sappiamo procedere. Questo valore è il valore ultimo. Ma proprio perché è ultimo non è dato dimostrarne il fondamento razionale. I valori ultimi non si fondano. Si assumono. E ogni assunzione è relativa al soggetto che la compie. Di qui il relativismo etico e l’irrazionalità che lo accompagna.

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“Sono pochi però – avvertiva Ernesto Rossi – coloro che riconoscono sinceramente l’irrazionalità di ogni motivo morale, perché ciò equivale a rinunziare a comprendere le ragioni stesse della nostra vita. E capisco benissimo che molti cerchino uno pseudo-spiegazione religiosa, piuttosto che contentarsi del nulla. Fin da ragazzo ho rinunciato ad ogni concezione religiosa perché ho presto riconosciuto nei sensi l’unica fonte di ogni mia possibile conoscenza ed ho sviluppato un senso critico incapace di contentarsi di spiegazioni puramente verbali.

Pure – aggiungeva – mantenendo anch’io la distinzione fra il bene e il male, ho accettato di conformare la mia vita a principi irrazionali. Vivere coscientemente è altrimenti impossibile.” (4). E poi di seguito: “Appunto la coscienza che anche la mia vita – dal punto di vista logico – è incongruente, in quanto mi muovo senza avere un motivo ultimo razionale che giustifichi il mio agire … mi porta ad essere tollerante verso le diverse credenze” (5).  

Eccolo qui il gancio che ci arpiona alla prima conquista della sapienza liberale: la tolleranza, appunto. Come è naturale che sia quando si gira in un ordine di idee che ignora la Verità; la Verità, intendo, con la V maiuscola, la Verità assoluta e perciò immutabile e sempre identica a se stessa.

Perché – vedete – se questa verità che è come pietrificata in se stessa, se questa verità non esiste (o comunque non è dato conoscerla), allora non si può logicamente escludere nulla; e soprattutto non si può logicamente escludere che l’errore (quello che oggi ci pare l’errore) possa domani sembrarci la verità, né viceversa si può escludere che quello che ora teniamo per vero possiamo dipoi ripudiarlo per falso.  Donde la necessità che anche i paladini dell’errore (di quello che ci sembra l’errore), che anche i sostenitori del falso (di quello che ci sembra falso) che anche loro abbiano il diritto di tentare le proprie esperienze perché – chissà! – è sempre possibile che precisamente da quelle esperienze noi si possa estrarre il guizzo della verità che alla fine ci farà cambiare idea.

Ora, quando anche gli “irregolari” – i “matti” li avrebbe chiamati Ernesto Rossi – quando anche i matti hanno il diritto di correre la loro avventura, e quando questa avventura ha la possibilità di comunicarsi al prossimo e magari di catturarne il gusto e di conquistarne la simpatia, quando avviene tutto ciò, segno è che non c’è più nulla di statico, nulla più di definitivo; e il mondo si emancipa da quella specie di prigione elastica che costringe gli uomini a ciondolare stancamente sulle esperienze del passato che, codificate nelle leggi, si ripetono nel presente e poi si prolungano nel futuro. No, non è più così dove si lascia che le leggi (morali o politiche) vengano contestate dagli eretici e dagli eterodossi i quali a voce spiegata diranno le ragioni della loro insoddisfazione; e poiché – come sappiamo – in punto di principio non si può escludere nulla, nemmeno che queste ragioni possano aprirsi un varco nell’intelligenza della restante umanità, ecco che per il tramite degli insoddisfatti dilegua l’idea stessa del mondo come un teatro dove si rappresenta una scena e una scena soltanto, sempre quella, sempre la medesima, con gli uomini fissati in una sorta di rugginosa immobilità ad estenuarsi nella replica dei loro atti e delle loro convinzioni. Qui, invece, attraverso il foro aperto dai “matti”, ci si apre al respiro del diverso e dell’imprevedibile, con la storia che prende l’andamento di un continuo divenire e di un perpetuo superamento. Ecco perché il liberalismo – questo liberalismo, almeno – è fondamentalmente, costitutivamente anti-conservatore.

In ogni caso, conservatore o progressista che sia, se il sistema liberale non è mai stato realtà tarda o scolorita, se nonostante tutti i suoi difetti ha sempre parlato alla sensibilità degli uomini, è proprio perché un principio, uno almeno, aveva bene da consegnarlo alla loro umanità; e il principio è tutto qui: che bisogna organizzare le cose in modo da difendere non la verità di qualcuno contro l’errore di ogni altro, ma il diritto di tutti a perseguire ognuno la sua verità. O il liberalismo è così o… o intristisce il frutto che solo può maturare in una stagione autenticamente liberale (e che, poi, è come il blasone di nobiltà del liberalismo), quel frutto intristisce secondo il quale – cito Rossi – il fine da perseguire è “la facoltà di scegliere ognuno per proprio conto la strada che reputa migliore secondo la sua particolare visione della vita, incontrando il minimo possibile di ostacoli nei vincoli sociali” (6).

Sennonché – aggiunge Rossi – questo è l’ideale di “ristrettissimi gruppi, specialmente nel nostro paese, per tanti secoli centro del cattolicesimo ed abituato alla servitù politica. L’enorme maggioranza degli uomini preferisce rimettere ad altri le responsabilità delle scelte e prendere le strade stabilite dai dogmi e dai regolamenti. Altrimenti – continua – non si spiegherebbe l’attrattiva esercitata sulle masse dal cattolicesimo, che con i suoi dogmi libera dalla responsabilità di trovare ognuno per proprio conto le verità che stiano a fondamento della vita spirituale” (7).

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Il solito Rossi, dirà qualcuno. Il solito spiritaccio impertinente che non perde occasione di “esecrare l’infame”. E qualcun altro, più benevolo, riconoscerà a questi pensieri decoro di verità, ma di verità storiche che misura e saggezza comandano di tenere strette nelle angustie di vicende ormai chiuse e concluse, cui altre sono seguite, tanto ma tanto più lievi e illeggiadrite dal soffio della libertà. Forse che da un certo momento innanzi il magistero della Chiesa non ripullula pure esso di richiami alla inviolabilità dell’uomo e alla sacralità dei diritti della sua coscienza? E allora? Perché passare e ripassare con ciglio contratto su pagine della  storia così sbiadite e superate dal tempo? Già, perché? Perché, sol che si spigoli tra i comuni vocaboli (“sacralità dell’uomo”, “inviolabilità della coscienza” ecc.), sol che ci si accosti a questi termini così apparentemente prossimi gli uni agli altri, insomma sol che non ci si lasci deviare dal suono ingannevole delle parole, è facile accorgersi che dietro di esse e magari dentro di esse gorgogliano umori, visioni del mondo ed etiche che sono antinomiche tra loro; antinomiche nel senso preciso che di quanto avanzano i confini morali del mondo laico-liberale di tanto è giocoforza che retroceda il dominio dell’universo cattolico, e viceversa.

Il fatto è – come è stato egregiamente spiegato – che nella geografia dello spirito laico, “si assume che il mondo, di per sé non abbia un ordine e che siano gli uomini a poterglielo e doverglielo dare attraverso atti della loro volontà” o, il che è lo stesso, mediante l’esercizio dei loro diritti. Per converso, i diritti cui si richiama la Chiesa assumono “che il mondo abbia un ordine e non siamo noi a poterglielo dare; sia cioè un cosmo e non un caos. Rispetto a questo ordine, che si deve prima di tutto riconoscere per quello che è, cioè come vero, giusto e buono, gli uomini hanno solo un grande dovere: quello di rispettarlo e, eventualmente, di restaurarlo quando sia turbato. Ma non possono certamente rivendicare il diritto di modificarlo a beneplacito della loro volontà” (8).

Parole, queste, dagli echi remoti, dove inconfondibile è il timbro della sapienza tomistica, e le cui sonorità si propagano in lontananza, fino a raggiungere gli accenti con cui Benedetto XVI, poco prima di ascendere al soglio pontificio, si è compiaciuto di favorire il dialogo con le religioni e le culture altre, specie con quelle che muovendo dal medesimo assunto, “presuppongono che l’uomo si trovi in un ordine del cosmo che gli indica come vivere e che precede le nostre decisioni” (9). Qui, dunque, gli uomini devono tenersi stretti ad un ordine che esiste prima della loro volontà; lì, invece, negli orizzonti laici, dal primigenio universo caotico l’ordine emergerà – se emergerà – solo dopo che le volontà dei singoli avranno procurato di realizzarlo sotto la guida della loro intelligenza e alla luce della loro autonoma coscienza. Precisamente quell’autonomia della coscienza che il Pontefice abbatte come la più sciagurata perversione della libertà: “c’è un concetto di libertà – sono parole sue – per il quale esiste solo, come portatore della libertà, il soggetto, l’individuo”, sicché “ogni uomo può e deve agire soltanto secondo la sua cosiddetta coscienza” (10). Dove quella coscienza che è “cosiddetta” vale veramente un Perù, lasciando indovinare tutto il turbamento intimo e come un rovinio di paure dinanzi ad una libertà (la libertà di coscienza, appunto) che, pure, segna la conquista più preziosa del mondo liberale.  

Sul quale mondo moderno peraltro, già nel 1991, l’allora cardinale Ratzinger s’era avventato con una apostrofe crudissima che, in un certo senso, lascia ammirati per la gagliardia dello stile e la immediatezza degli argomenti. Ed è così che dopo aver saettato moniti biblici contro una società che alle soglie del terzo millennio “mira all’eliminazione degli handicappati, di coloro che danno fastidio, e persino semplicemente di coloro che sono poveri e ‘inutili’” (11), è così – dicevamo – che la requisitoria ripara nell’indicazione delle cause di tanta  cattiveria. E tra le cause, c’è ne è una in particolare che spiega “il diffondersi di una mentalità in opposizione alla vita”. Nella denuncia di Ratzinger questa causa è “connessa con la concezione stessa della moralità oggi largamente diffusa. Ad una visione individualistica della libertà, intesa come diritto assoluto di autodeterminarsi sulla base delle proprie convinzioni, si associa spesso un’idea meramente formale di coscienza. Essa non si radica più nella concezione classica della coscienza morale. In tale concezione – che come precisava il Cardinale – è “propria di tutta la tradizione cristiana, la coscienza è la capacità di aprirsi all’appello della verità obiettiva, universale ed eguale per tutti, che tutti possono e devono ricercare. Invece – sono ancora parole sue – nella concezione innovativa, di chiara ascendenza kantiana, la coscienza è sganciata dal suo rapporto costitutivo con un contenuto di verità (…) In tal modo la coscienza viene ad essere nient’altro che la soggettività elevata a criterio ultimo dell’agire”. Con la conseguenza che la coscienza, questa “cosiddetta” coscienza “diventa una deificazione della soggettività”, di cui [essa] è oracolo infallibile” (12).

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S’è voluto riportare per larghi tratti il pensiero di Ratzinger perché c’è qui, come raffigurata in scorcio, tutta la differenza che passa tra la libertà di coscienza del laico-liberale  e la libertà di coscienza del cattolico. Per il laico, la libertà di coscienza è il diritto di professare una verità qualunque – una qualunque, intendiamo? – e dunque anche di non professarne nessuna, se così gli piace; mentre per il cattolico la libertà di coscienza è il diritto di non essere distolti con la forza dalla ricerca dell’unica verità, che è già lì, precostituita e solo attende di essere scoperta. Trattandosi di verità precostituita, tutto, tutto è già stabilito in anticipo: al più gli uomini potranno precisarla meglio quella verità e meglio adattarla ai tempi, ma certo non dovranno inventare nulla e nulla potranno concedere al loro capriccio. Con il risultato che la verità cattolica presiede ad un universo bloccato, una specie di percorso obbligato che sollecita i singoli ad avanzare lungo la stessa, identica strada che già ieri, ieri l’altro e sempre si stendeva davanti al loro sguardo. Nel che è il ripudio del principio laico dell’autonomia personale, ossia del principio per il quale le strade del mondo sono molteplici ed imprevedibili, e in punto di principio non ve ne è alcuna che l’umano non possa tentare sotto la spinta della propria iniziativa. Sarà buona quella strada? Sarà cattiva? Non sappiamo. Sappiamo soltanto che è la sua strada. E tanto basta.

Tanto basta, si capisce, a coloro che si avvezzano a decidere da sé del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, e così – temprati all’esercizio della scelta e quindi gelosi della loro indipendenza – ricusano di consegnare a terzi la traiettoria della propria vita. Che è poi esattamente la tempera da cui uscì riscaldata la sensibilità di Rossi. “Le mie verità – lasciò scritto – le considero verità relative, provvisorie, è vero”. Ma “io non ho mai tenuto fuori di me il motore primo delle mie azioni”. E poi, più distesamente: “Il mio atteggiamento scettico mi impedisce, e credo che mi impedirà sempre, d’avere le qualità dell’uomo di azione. Per creare la fiducia negli altri ed assumerne la direzione, occorre essere per primi convinti del valore assoluto delle proprie verità” (13).

Tutto ciò, però, “non mi impedisce di prendere posizione nelle questioni generali che si presentano nell’ambiente in cui vivo” La ‘via giusta’ non la so. So quello che nel particolare momento mi sembra giusto. E mi basta. Vada il mondo dove deve andare, mi trovi nella corrente o contro corrente, io posso ‘salvarmi l’anima’ solo prendendo quella strada che alla mia debole ragione appare relativamente migliore” (14). Non è molto. Ma non è neppure poco. E non è poco perché allacciare così i legami con la propria coscienza significa – come diceva Camus – “sapere che c’è sempre un luogo in cui il cuore troverà la sua armonia” (15) E questa è già una sufficiente garanzia per la tranquillità della vita umana.

A proposito di tranquillità.

Pochi mesi prima di morire, Ernesto Rossi, in una lettera a Bauer, aveva scritto parole asciutte, disincantate e che, pure, nella loro sobrietà, vibrano di un’accensione poetica: “se ci domandiamo a cosa approdano tutti i nostri sforzi e tutte le nostre angosce, non sappiamo trovare altre risposte fuori di quelle che dava Leopardi: si gira su noi stessi come trottole, finché il moto si rallenta, le passioni si spengono e il meccanismo si rompe”. E poi: “Io non ho mai avuto paura della morte. Mi è sempre apparsa una funzione naturale, inspiegabile, inspiegabile come tutto quello che vediamo in questo porco mondo. Crepare un po’ prima o un po’ dopo non ha grande importanza: si tratta di anticipi di infinitesimi, in confronto all’eternità, che non riusciamo neppure ad immaginare. Ma ho sempre avuto timore della cattiva morte.”

Sia consentito aggiungere che se la “cattiva morte” è di chi non ha saputo vivere in armonia con se stesso, allora è assolutamente da escludere che la morte possa essere stata “cattiva” con Ernesto Rossi.  

Gaetano Pecora    

Note:

1)   A. Braga e S. Michelotti (a cura di), Ernesto Rossi. Un democratico europeo, Rubbettino, Soveria-Mannelli 2009.    

2)   E. Rossi, Liberalismo e giacobinismo, ora in Lo Stato moderno: antologia di una rivista, Comunità, Milano 1965, p.214.  

3)   E. Rossi, Elogio della galera, Laterza, Bari 1968, p. 155  

4)   Ivi, pp. 185-186  

5)   Ivi, p.186  

6)   Ivi, pp.60-61  

7)   Ivi, p.61  

8)   G.Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992, pp.110-111  

9)   L’intervento di Ratzinger fu riportato per larga parte sul “Corriere della Sera” della Sera di mercoledì 20 aprile 2005. La citazione è tratta dalla pag. 13  

10)Ibid.  

11)J.Ratzinger, Il problema delle minacce alla vita umana, relazione tenuta nell’aprile del 1991, all’apertura del concistoro straordinario. Il testo integrale è riportato su “L’osservatore romano” del 5 aprile 1991. La citazione è tratta da pag.4  

12)Ibid  

13)E. Rossi, Elogio della galera, cit., p.398-399  

14)Ivi, p. 399  

15)A.Camus, L’estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano 2003, p.25