martedì, Marzo 19, 2024

Il ciclo di Frenkel

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4 minuti di lettura

Il presente contributo si prefigge lo scopo di fare il punto, servendoci della teoria economica, sull’attuale stato in cui versa il nostro Paese dopo ormai sei anni di durissima crisi.

A tal fine, ci serviremo di uno schema teorico elaborato dall’economista Roberto Frenkel, dell’Università di Buenos Aires.

Lo studio che vi è alla base tenta di descrivere dettagliatamente tutte le inevitabili tappe che si susseguono ogni volta che un Paese sviluppato decida di agganciare la propria valuta ad un’area economica più forte, perdendo sovranità e accettando in tal modo di ridursi al rango di un Paese in via di sviluppo.

È esattamente il caso italiano all’indomani dell’entrata nell’euro. Le fasi del processo sono essenzialmente sette. Vediamole brevemente una ad una.

Nella prima il Paese accetta di aderire ad un’unione monetaria insieme ad altri paesi economicamente più forti, adottando contestualmente misure quali un cambio fisso, liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati finanziari interni (attuate in Italia con il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia del 1981, il quale comportò l’abolizione del vincolo di portafoglio per quest’ultima e la necessità per lo Stato di finanziarsi ad alti tassi sui mercati privati) e liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali.

Nella seconda fase i Paesi ad economia forte del centro, garantiti contro eventuali svalutazioni dal cambio fisso, inondano con massicce quantità di capitali i Paesi periferici, comportando per questi ultimi un aumento incontrollato del debito estero, in maggioranza privato e non pubblico, in virtù della conseguente esplosione delle importazioni (in Italia il debito pubblico era in calo prima della deflagrazione della crisi, ed è cominciato a risalire solo a seguito degli interventi decisi per salvare il settore bancario in crisi).

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Nella terza fase, grazie all’afflusso ingente di capitali esteri, aumenta la liquidità interna così come il credito al settore privato, con un contestuale accrescimento del Pil e dell’occupazione.

Si assiste pertanto anche ad un miglioramento delle finanze pubbliche a seguito dei maggiori introiti fiscali apportati dalla momentanea espansione economica.

Nella quarta fase, la suddetta espansione comincia a determinare un aumento dei prezzi, ossia dell’inflazione. Il problema è che la crescita resta sostanzialmente legata all’afflusso dei capitali esteri, il quale comporta un ulteriore aumento dell’indebitamento del settore privato, non di quello pubblico.

Iniziano a crearsi grosse bolle speculative causate dalla liberalizzazione dei capitali (in caso contrario, lo Stato potrebbe limitare i danni bloccando gli afflussi di capitali) e comincia a declinare la competitività.

La quinta fase è cruciale: i creditori del centro si accorgono che il sistema va verso un insanabile squilibrio e, spesso a seguito di un evento traumatico e alla constatazione che il livello al quale il cambio è fissato non è più credibile, il bubbone esplode, con la chiusura dei rubinetti del credito verso la periferia, i cui finanziamenti esteri vengono bloccati.

Le bolle deflagrano e l’unico modo per dare ossigeno all’economia sarebbe una svalutazione della moneta, resa tuttavia impraticabile dalla rigidità del cambio.

Nella sesta fase le tensioni si scaricano sul mercato obbligazionario e si assiste all’aumento del famigerato spread (ricordiamo a tal proposito che, non avendo più l’Italia una Banca centrale nazionale, i tassi di interesse sono determinati dai mercati, i quali incorporano nello spread il rischio paese, fattosi via via più cogente al degenerare delle sempre più insostenibili regole imposte dall’Europa).

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In questo momento lo spread è sceso per l’intervento della Bce che ha voluto rassicurare i mercati circa la sostenibilità dell’eurozona, ma ricordiamo che nel suo statuto è previsto come unico compito il contenimento dell’inflazione, non l’acquisto sul mercato primario di titoli di Stato dei Paesi membri.

Pertanto, resta in qualsiasi momento possibile un attacco speculativo che potrebbe portare al tracollo.

In questa fase inoltre tutti gli investimenti produttivi subiscono un brusco rallentamento, così come la spesa privata.

Il taglio della spesa pubblica chiude il cerchio, precipitando il Paese in una drammatica recessione economica.

Al crollo dei consumi e degli investimenti segue il crollo del PIL, aggravato peraltro proprio dal taglio della spesa.

Il rapporto debito/PIl esplode.

L’ultima fase, la settima, è quella del tracollo, solitamente seguente all’insorgenza del binomio costituito dal circolo vizioso di austerità/recessione con un possibile e fatale attacco speculativo che rende insostenibile continuare ad indossare la camicia di forza del cambio fisso, costringendo il Paese sotto attacco ad abbandonare l’area monetaria di riferimento.

Attualmente, dovrebbe dunque apparire chiaro come il nostro Paese sia pienamente impantanato nella penultima delle sette fasi, e l’unico motivo che ancora lo tiene sopra la linea di galleggiamento è che i governi che in questi ultimi anni si sono succeduti hanno obbedito servilmente al Leviatano eurocratico, prendendo tutti i provvedimenti necessari atti a tranquillizzare i creditori esteri come, tema di questi mesi, l’abolizione delle tutele previste dall’articolo 18, optando quindi a favore della svalutazione interna, ovvero per il taglio dei salari.

Quest’ultimo sta comportando una netta caduta della domanda interna e quindi dei consumi, con un’annessa e vertiginosa esplosione della disoccupazione la quale, unitamente alla stretta creditizia e al crollo degli investimenti, sta conducendo l’economia sulla via del non ritorno.

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Il gioco perverso si può dunque riassumere nel modo seguente: il centro può prestare soldi alla periferia vendendovi le proprie merci e lucrando su interessi alti, salvaguardandosi al contempo dal rischio di cambio.

La periferia, d’altro canto, diventando credibile grazie al cambio fisso, ottiene facilmente credito estero e i suoi capitalisti, con il pretesto del vincolo esterno, riescono a far accettare ai lavoratori delle politiche atte a smantellare i loro diritti e a comprimere i loro redditi.

Insomma, alla fine dei conti, coloro che ci rimettono sono sempre i soliti, ma questo gioco, alla lunga, non potrà durare, e sembra ormai giunto sul punto di rottura.

Davide Parascandolo

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