PER UNA DEFINIZIONE DI LIBERTÀ
Nel 1958 il filosofo Isaiah Berlin, nel suo saggio “Due concetti di libertà”, teorizzò una distinzione destinata a divenire criterio fondamentale per spiegare cos’è la libertà in ambito politico. Lo studioso, infatti, scisse nettamente la nozione di libertà negativa (o libertà da) da quella di libertà positiva (ossia libertà di). Si tratta, ovviamente, di concetti già presenti in nuce nella teoria politica sin dall’epoca di Platone, ma l’importanza della “scoperta” è di importanza capitale. Pur non volendo infatti assolutizzare la dicotomia posta da Berlin, ed anzi volendo prendere atto della sua natura essenzialmente didattica (d’altra parte in molti autori è dato riscontrare tendenze ambivalenti), bisogna riconoscere che essa è divenuta un formidabile strumento ermeneutico per comprendere il significato di libertà, e come esso venga di volta in volta declinato dai vari pensatori. Prima di questa classificazione così rigida eppure così utile era certamente cosa difficile districarsi tra le mille accezioni che venivano proposte: una confusione incredibile destinata a creare molti equivoci. Se la concezione di Berlin fosse stata divulgata un po’ di più tra i cittadini, probabilmente oggi avremmo un corpo elettorale più consapevole. La contrapposizione, d’altra parte, è semplice da capire. Meno facile è dover poi operare una scelta: e non è detto che essa debba sempre essere tassativa! Libertà negativa vuol dire libertà come assenza di vincoli, libertà da inutili costrizioni imposte dai poteri pubblici attraverso l’arma appuntita e pericolosamente invasiva della legge. O, peggio, della coercizione fisica di cui dispone il potere politico. Il monstrum da evitare è dunque lo Stato, quel Leviatano celebrato da Hobbes che inevitabilmente tende a fagocitare tutto ciò che lo circonda. L’idea di libertà da è propria del pensiero liberale, da Locke fino a Nozick: lo spirito di fondo è quello di contrastare le spinte accentratrici dello Stato ponendogli dei limiti e rafforzando il ruolo dell’individuo con le sue prerogative inviolabili. D’altra parte proprio Locke rappresentò l’anello di congiunzione tra la tradizione giusnaturalista e l’idea liberale: dalla Scuola del Diritto Naturale il Liberalismo ha ereditato l’elaborazione dei diritti umani e li ha trasfusi nelle carte costituzionali. Cos’è un diritto naturale se non una sfera dove lo Stato non può intervenire? Al massimo, la Legge potrà riconoscere o rafforzare (come afferma Filangieri nella “Scienza della Legislazione”) il loro contenuto, ma non già limitarli o negarli. Per chi segue l’impostazione liberale, lo Stato rappresenta un male necessario, da cui è meglio fuggire ma di cui non si può fare a meno (questa la differenza con gli anarchici). La libertà dei Liberali è quindi uno spazio di liceità, dove non c’è né divieto né prescrizione. “Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo – sosteneva Kant – ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo”. L’assenza di ordini tassativi fa sentire i liberali sgombri da un peso affannoso e molesto. Aldilà delle concezioni politiche, sono convinto che molto spesso preferire nella vita questa versione di libertà sia frutto di una particolare propensione psicologica (così come chi aderisce all’altra soluzione spesso vi è portato da una particolare inclinazione personale). La esperienze, il carattere, le contingenze del momento ti inducono a propendere da un lato o dall’altro nelle scelte di ogni giorno. C’è chi è terrorizzato dal potere (qualunque esso sia!) e chi ne è totalmente sedotto. Ma queste considerazioni vanno ben oltre la sfera politica… Ad opporsi alla libertà da c’è quindi il suo alter ego: la libertà positiva. Il massimo teorico di questo bislacco concetto fu Jean Jacques Rousseau. Non un liberale, quindi, ma un democratico. Per lui essere liberi significava essenzialmente poter prendere parte alle decisioni che regoleranno la nostra vita. Votare e divenire quindi membro di un organismo che riunisce tutto il popolo – corpo unico che deve vivere in perfetta armonia e simbiosi – è quindi la massima realizzazione di libertà per il filosofo francese. Libertà come autonomia, cioè possibilità di dettarsi da sé le regole del buon vivere. Sennonché l’ideale di Rousseau arriva ad esiti totalmente opposti a quelli liberali: porre limiti allo Stato democratico non solo non serve, ma anzi è controproducente perché il popolo sovrano è infallibile e giammai ritorcerà contro di sé il potere. Se il pericolo di abusi ed ingiustizie non si prospetta neanche in linea teorica, che senso ha porre limiti all’onnipotenza del legislatore? Qui però emergono le falle del pensiero rousseauiano: troppi postulati in campo politico rischiano di minare la stabilità della costruzione teorica. E se invece l’Assemblea votasse una legge ingiusta? E se valutasse male l’interesse generale? E se invece si verificasse quella “tirannia della maggioranza” di cui parla Alexis de Tocqueville? Troppi interrogativi minano alla fondamenta le certezze dogmatiche di Rousseau, che in fondo non è poi tanto distante dall’Assolutismo di Hobbes. Solo che lì a dominare tutto è il monarca, qui il δήμος: cambia il titolare della sovranità, ma il risultato è lo stesso! La libertà del filosofo francese diventa qualcosa di trascendente, che non riguarda più il singolo uomo ma la comunità nel suo insieme. E che succede se al singolo quella scelta della maggioranza non piace proprio? E se gli viene imposta una legge che pretende di regolare finanche gli aspetti più intimi e privati? È ancora un uomo libero, quello? Sarà o un pazzo o un criminale, semmai proverà a resistere. Insomma, tirando le somme del discorso di Rousseau non si può non giungere ad esiti organicistici e persino totalitari. Il tutto vale più del singolo. Ma in questo ragionamento la libertà fatico francamente a capire dov’è… Il problema, comunque, è ben più complesso di quanto possa apparire da questa esposizione. Detta così, infatti, sembrerebbe che l’unica vera libertà sia quella da. L’altra è una forma ingentilita di costrizione. Ma a cosa si riduce, in concreto, questa libertà da se poi non si hanno le risorse economiche per giovarsene, e quindi invece di essere servi dello Stato si diviene servi di qualche potentato economico? In tutta evidenza, mi sembra ovvio che la libertà dallo Stato e la libertà nello Stato siano due estremi inconciliabili. Tra le due, mi tengo la prima. C’è poi chi (ad esempio Pietro Perlingieri) ha parlato, come tentativo di conciliazione, di libertà per mezzo dello Stato (il termine – non molto suggestivo – designa la soluzione propria del cosiddetto Stato sociale di diritto). Lo Stato, quindi, potrà promuovere le libertà individuali, ponendo le premesse per permettere a tutti di goderne. Potrà inoltre dare uguali opportunità a tutti, senza però assicurare a tutti i medesimi risultati (uguaglianza dei punti di partenza, ma non dei punti di arrivo!). Uno sforzo di mediazione credo sia auspicabile, perché arroccarsi su posizioni ideologiche mi sembra retrivo e sbagliato. Se le soluzioni di Rousseau ci shockano, non per questo bisogna foderarsi gli occhi davanti ai problemi che hanno sollecitato i suoi studi. A patto che la soluzione di compromesso non diventi un espediente per foraggiare ancora una volta il Leviatano. Non credo ad uno Stato infallibile ed onnipotente. Mi sembra il surrogato di una religione. Lascio volentieri che la vera Libertà di me la conceda il Signore nell’altro mondo: tutte le altre sono solo una contraffazione mal riuscita… In questo, mi accontento di meno fastidi possibili e di uno Stato che faccia bene i suoi doveri essenziali: che sia pure tendenzialmente giusto, ma non etico.