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La recente epidemia resterà impressa nella memoria per una serie di restrizioni inaudite che hanno sconvolto la nostra fiacca quotidianità di uomini occidentali, narcotizzati dal benessere e dal conformismo della sottocultura. Questo pezzo di mondo, immerso nel suo dinamismo fine a sé stesso e nella sua smania di successo, ha dovuto improvvisamente rinunciare alle sue cerimonie di massa. Gli aperitivi sono stati gli ultimi ad arrendersi, quando già il rito domenicale del centro commerciale si era mestamente interrotto. Le metropoli, dove la vita scorre frenetica e gli uomini pagano a caro prezzo per una cella nell’alveare, si sono arrestate di colpo, in un silenzio assurdo spezzato dalla sirena di un’ambulanza. Il selfie con la mascherina poteva esorcizzare lo spettro fino ad un certo punto: ma oltre ai morti, che non hanno ricevuto neanche il degno commiato, questo virus ha smascherato l’ansia che cova in quella società che ha fatto della felicità un diritto. Perché, diciamolo, nemmeno la vita di prima, quella fatta di lustrini e social network, era poi così serena. Semplicemente, se il 15% degli italiani fa uso di ansiolitici, antidepressivi o sonniferi ed il 22% di droghe, un problema ci sarà.

Ma non sull’aspetto sociologico che intendo soffermarmi e, men che meno, su quello epidemiologico. Non m’interessa giudicare la bontà delle misure di contrasto al virus che sono state adottate. Piuttosto, nel rispetto delle competenze, mi contento di dire la mia sull’aspetto giuridico e politico di una vicenda che ha offerto agli addetti ai lavori non pochi spunti di riflessione. Siamo, indubbiamente, di fronte ad un laboratorio gravido di rischi e di potenzialità: chi ha letto Schmitt o Agamben non fatica a riconoscere in azione uno schema che sembrava astratto o magari superato: lo stato di eccezione, lì dove il registro giuridico ordinario salta e si tratta di decidere presto e fuori da ogni schema. So che questa categoria fa accapponare la pelle ai formalisti e a quanti hanno eretto la Costituzione a non plus ultra, quasi non si potesse immaginare altro dal testo scritto. Ma attenzione…qui non si tratta di approvare il meccanismo eccezionale, ma di essere sufficientemente smaliziati dal coglierne l’operatività. Sto esprimendo un giudizio di fatto, non un giudizio di valore: anzi, il senso del discorso è proprio evitarne l’attivazione in sordina. Non lasciamoci fuorviare dalle parole: nessuno, nel mondo attuale, oserebbe proclamare lo stato di eccezione apertis verbis: l’ultimo che lo ha fatto, peraltro con una procedura del tutto corretta (il celebre art.48 della Costituzione di Weimar) si chiamava Adolf Hitler. Ci sono modi più sottili per ottenere lo stesso risultato, facendo digerire alla popolazione una disciplina rigida in nome di un’esigenza di capitale valore.

Questa crisi ci dice molto su chi comanda, oggi, in Italia. Sono cose che, in fondo, già sapevamo: il virus ha solo scoperto un nervo. Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione, ripeteva Schmitt. Bene. In questo caso, è chiaro che chi ha deciso non è stato il popolo sovrano tramite i suo scialbi rappresentanti (art.1 della Costituzione italiana) e nemmeno il “capo dello Stato e garante dell’unità nazionale” (art.87), ma il presidente del consiglio dei ministri che, a rigore, dovrebbe “dirigere la politica generale del Governo” e “mantenere l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri” (art.95). Purtroppo, almeno a partire dal ’94, ci siamo abituati a considerare il presidente del consiglio come vero deus ex machina della politica italiana, con una trasformazione costituzionale di fatto che ha svilito la funzione del Parlamento. Chi ha provato a mutare la Carta nome del premierato, quantomeno, è stato onesto; chi ha fatto della Carta un feticcio salvo tradirla nella prassi, invece, è stato furbo.

Oltretutto, ci si dovrebbe domandare: chi comanda nello stato di eccezione? Anche sotto questo profilo il virus ha palesato una tendenza già avvertita negli scorsi decenni ma, forse, mai in modo così lampante. Nello stato di eccezione decidono i tecnici, con buona pace della politica. Il che potrebbe anche essere un male minore, considerando questa classe politica: ma è pur sempre una disfatta della democrazia. Insomma, ci siamo assuefatti a tale logica: il teatrino parlamentare, con le sue stucchevoli polemiche, può essere mantenuto finché tutto va liscio. Ma appena la situazione precipita sappiamo tutti di aver votato politici inadeguati e corriamo ai ripari sperando che il tecnico ci possa salvare. Con questo, si caricano i tecnici stessi di una funzione che non sanno e non possono svolgere e ci s’indigna se, com’è normale nella comunità scientifica, non tutti siano concordi nell’indicare l’exit strategy. Tocqueville sosteneva che i politici eletti in democrazia sono inevitabilmente mediocri, come la massa che li ha scelti: temeva che ciò si capovolgesse nell’accettazione del tiranno, senza pensare alla tecnocrazia. L’esperienza degli ultimi 30 anni ci dice che ogni crisi è stata accompagnata da un governo tecnico, depositario di speranze salvifiche: in principio furono Tangentopoli e Carlo Azeglio Ciampi (1993), poi fu la volta della crisi economica e di Mario Monti, col suo governo in loden prima osannato e poi ferocemente odiato (2011). Stavolta, non c’è stato tempo di cambiare squadra (anche se serpeggia tanta voglia di Draghi…): il camaleontico Giuseppe Conte ha fatto di meglio sostituendo, nelle scelte che contano, il suo esecutivo raccogliticcio prima coi virologi, poi con una task force di esperti delle più diverse discipline. La voce dei ministri, in tutto ciò, si è fatta flebile. Il Parlamento, non pervenuto.

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In questa logica si spiega l’adozione del DPCM come strumento giuridico per disciplinare l’emergenza. Si noti: il DPCM è un atto personale del Presidente, non condiviso nemmeno dai suoi ministri. Ed essendo formalmente un atto amministrativo non è impugnabile davanti alla Corte Costituzionale ma, semmai, davanti alla giustizia amministrativa (che però, come è noto, costituisce una giurisdizione speciale per vocazione assai “amica” della pubblica amministrazione). Non ho difficoltà ad affermare che l’uso dei DPCM sia contrario alla Carta. So che autorevoli giuristi hanno affermato il contrario ma non mi meraviglia da parte di chi, nel tempo, ha fatto della difesa della Costituzione una battaglia assai politicizzata. Salvo rare eccezioni, coloro che per decenni hanno idolatrato la “Costituzione più bella del mondo” non hanno accennato una minima critica al suo svuotamento sostanziale. Gente che si stracciava le vesti di fronte alle riforme di Berlusconi o Renzi – condivisibili o pessime, hanno osservato l’iter di modifica costituzionale salvo fallire i referendum – non ha battuto ciglio di fronte a stravolgimenti de facto, che non solo hanno limitato le libertà dei cittadini (era giusto farlo? Non spetta a me dirlo) ma hanno palesemente violato la procedura.

Rileggiamo un attimo l’art.16: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”. Risalta agli occhi la riserva di legge, che obbliga ad utilizzare una precisa fonte del diritto per restringere la libertà in questione. Di fronte ad un valore prezioso come la libertà di circolazione, occorre uno strumento che abbia il crisma della legalità: la legge non è un provvedimento come tanti, è la voce della sovranità e del popolo perché approvata dal Parlamento. Piccola nota triste: mentre il Presidente del Consiglio entrava a gamba tesa nella quotidianità degli italiani, nella fase più cupa del contagio il Parlamento è rimasto chiuso per 2 settimane. Ora, il vero virus che affligge la democrazia si riconosce proprio quando il Parlamento comincia a sembrare un’inutile formalità (“Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli”). Ricordiamo che questo è il Legislativo dominato da un movimento che fa della democrazia (perfino di quella diretta!) il suo mantra e che il presidente Fico, all’atto dell’insediamento, si era proposto di restituire dignità e centralità alla Camera, dopo un ventennio in cui la legge era stata sistematicamente umiliata da decreti legislativi e decreti legge (quindi, dall’interventismo normativo del governo).

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D’accordo, la legge è uno strumento farraginoso di fronte ad un’emergenza. Si usi almeno il decreto legge, l’unico mezzo che la Carta riconosce per fronteggiare un’eventualità improvvisa. Per esattezza, rileggiamo anche l’art.77: “Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. Quando, in casi straordinari di necessità e di urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione”. Il primo comma ci dice una cosa che, evidentemente, è sfuggita ai più: al di fuori di decreti legislativi e decreti legge non c’è decretazione che possa fungere da legge. Ciò significa che il DPCM non soddisfa la riserva di legge. E non si replichi ricordando che c’è stato, a monte, un decreto legge che aveva previamente conferito al Presidente il potere di intervenire con DPCM: ciò equivarrebbe a legittimare una cambiale in bianco in materia di diritti fondamentali. Questo giochetto artificioso – una scatola cinese! – ripugna alla ratio garantista della riserva di legge. Non è possibile pensare che la sostanza di una limitazione alla libertà sia disposta con atto amministrativo, al quale è riconosciuta una mera funzione esecutiva o di regolamentazione del dettaglio. Ci sarebbe stato tempo per intervenire con lo strumento ad hoc (un decreto legge che avesse contenuti) per poi procedere con la conversione in legge dopo 2 mesi, coinvolgendo le camere.

Mi rifiuto di pensare che queste considerazioni siano sofismi da giurista, perché al contrario toccano il cuore stesso del nostro essere cittadini ed uomini liberi. L’argomento per cui, in questa circostanza, bisogna “pensare alla salute” non regge. Anche il Reichstag, nel votare l’attivazione dell’art.48, temeva che il pericolo sovietico fosse dietro l’angolo. Conte non è Hitler, ma guai a banalizzare l’importanza di certe forme che, al contrario, sono poste per tutelarci dall’arbitrio. Il rischio è quello di legittimare un pericoloso precedente. Non è scritto da nessuna parte che il diritto alla salute (art.32) sia talmente apicale da sopravanzare lo stesso assetto liberaldemocratico.

Occorre dire che l’opposizione non ha brillato affatto per capacità propositiva. Salvini ha perso la bussola e si è contraddetto sulle riaperture. Ciò che gli riesce che meglio, la polemica, stavolta gli si è ritorto contro: in un contesto dove gli italiani hanno mostrato notevole compattezza, la voce dissonante è sembrata fuori luogo. E, occorre aggiungere, le dissonanze dell’opposizione non sembravano né costruttive né particolarmente brillanti. Va però rilevato che si è diffuso nell’opinione pubblica un certo conformismo, un’assimilazione tra dissenso e tradimento che non fa bene al dibattito democratico. Al contrario, specie passata la primissima fase, era opportuno che chiunque avesse un proprio interesse in gioco alzasse la voce. Anche perché, a dirla tutta, le disposizioni dettate dai virologi appaiono tuzioristiche ma prive di buon senso, talora inattuabili. Davvero pensiamo che gli attrezzi di una palestra possano essere sanificati dopo ogni singolo uso? Davvero crediamo che i bagnini possano puntare il termoscanner alla tempia dei villeggianti e compilare uno scrupoloso registro delle presenze (mentre le spiagge libere restano…libere)? Queste norme metteranno i destinatari di fronte ad una scomoda alternativa: infischiarsene o chiudere. Tutto lascia presagire che prevarrà la prima opzione, giacché i primi passi di questa fase 2 mostrano, soprattutto nelle città, una diffusa trasgressione delle regole. La fase 2 che si era aperta con un memorabile discorso in cui il premier spiegava che nelle visite ai congiunti, dentro casa, occorreva tenere la mascherina e rimanere distanziati si è evoluta, subito, in uno “struscio” sui viali a gruppi più numerosi di prima. Le forze dell’ordine passano, guardano e non fanno nulla. In un giorno, siamo passati dagli arresti domiciliari al “libera tutti”: è chiaro che c’è qualcosa che non va, in un senso o nell’altro.

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Abbiamo assistito agli slogan del premier (“Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore domani”; “Se ami l’Italia, mantieni le distanze”) e a conferenze stampa per parlare alla nazione di un decreto ancora non scritto; abbiamo assistito a presidenti di regione e sindaci malati di protagonismo (dal lanciafiamme di De Luca al sindaco De Caro che, in diretta Facebook, passeggia sul lungomare per rimproverare i passanti); abbiamo assistito a linciaggi social e ad un uomo sulla spiaggia di Rimini accerchiato da due quad e da una volante; abbiamo visto i droni della Municipale volteggiare sulle nostre città alla ricerca del colpevole (memorabili l’inseguimento sull’Appia antica di un runner solitario). Tutto troppo ridicolo per essere preso sul serio ma, allo stesso tempo, fuori luogo e sproporzionato rispetto al fine. Occorre soggiungere che mentre il populismo saliva in cattedra, il lessico giuridico adoperato lasciava decisamente a desiderare. Sciatteria normativa o frutto di una voluta ambiguità? Fatto sta che, giocando con termini impropri come “congiunto” o “abitazione” (che non è “residenza”, non è “domicilio” ma non è nemmeno “seconda casa”: e allora cos’è?), si è spianata la strada agli escamotages (ma anche a discutibili multe da parte di qualche poliziotto zelante). Ci siamo rassegnati a chiedere divinazioni alle faq sul sito della Presidenza o alle interviste rilasciate a Domenica in.

Una pagina impietosa è quella del rapporto Stato/Regioni, sulla quale preferisco non entrare se non per dire che, se una cosa buona può avere l’assetto regionalistico, questo consiste proprio nel poter differenziare il trattamento di situazioni obiettivamente diseguali. Qui, di fronte a dati decisamente difformi, la fase 1 e la fase 2 sono state disciplinate allo stesso modo per Lombardia e Basilicata. Chi ha scelto, con mille sacrifici, di continuare a vivere nei piccoli paesi di montagna, dove magari il virus si è appena percepito, è stato trattato come chi lavora a Milano e prende la metro nell’ora di punta. Così, si è penalizzata una piccola economia già sofferente con restrizioni irragionevoli.

Ciò che più si può rimproverare alla classe politica è la totale assenza di programmazione. Tra il primo caso cinese (Wuhan, 17 novembre) ed il primo caso italiano (Codogno, 18 febbraio) passano 3 mesi esatti: il 12 dicembre l’emittente cinese CCTV dà la notizia, il 23 gennaio comincia la quarantena di Wuhan. All’esplosione dell’epidemia in Italia, le autorità avrebbero dovuto avere un piano già pronto: invece, hanno tentennato nell’istituzione delle zone rosse e, poi, sulle misure da adottare. Quanto alla fase 2, l’improvvisazione non è stata minore: ne andava della sopravvivenza di intere categorie di lavoratori e, invece, si è arrivati alle fatidiche date coi provvedimenti tutti da scrivere. Nel frattempo, scopriamo che il 3 giugno apriranno contestualmente i confini fra regioni e le frontiere Schengen (con Paesi dove il contagio è ancora in corso): un altro provvedimento illogico, dettato dal must delle frontiere aperte che non conosce buon senso, nemmeno a tempo determinato.

Più volte, durante l’epidemia, ci siamo chiesti con Vito se questa vicenda avrebbe cambiato l’uomo moderno o, magari, lo avrebbe perfino migliorato. Al suo radicale scetticismo, mi sono limitato ad osservare che ognuno, durante questi giorni, si è semplicemente rafforzato nelle proprie convinzioni pregresse. Il ballo dell’insipienza sta per ricominciare: nessuno riesce a fermarlo, non c’è riuscito nemmeno il covid. Non ci resta che restare in disparte e rifugiarci nelle poche cose che vale la pena assaporare: un amico, un libro, la bellezza della natura e dell’arte, il volgere delle stagioni. L’essenziale.