Dopo un periodo di silenzio – che “per lungo silenzio parea fioco”, direbbe il Poeta – Giuseppe Prezzolini torna a parlare. Non con la sua voce, si capisce (che si tacque definitivamente nel 1982 e che, peraltro, quanti ebbero la ventura di ascoltarla ricordano come liquida, armoniosa e dalla dizione assolutamente perfetta); non con la sua voce ci parla, dunque. Con i suoi scritti, invece, riproposti in gran copia proprio in quest’ultimo giro di tempo. Senza andare troppo indietro e per rimanere solo agli ultimi cinque-sei anni, ricordiamo qui Come gli americani scoprirono l’Italia (Boni, 2000), America in pantofole (Vallecchi 2002), Storia tascabile della letteratura italiana (Sellerio, 2002), Una voce controcorrente (Poligrafici editoriale, 2003), Giovanni Papini – Giuseppe Prezzolini, Carteggio, 1900-1907 (Edizioni di Storia e Letteratura, 2003), Codice della vita italiana (Sellerio, 2003), L’Italia finisce. Ecco quel che resta (Rizzoli, 2003), Cristo e/o Machiavelli (Sellerio, 2004), Ardengo Soffici – Giuseppe Prezzolini, Carteggio, 1907-1918 (Edizioni di Storia e Letteratura, 2004), Intervista sulla destra (Nuove idee, 2005), Modeste proposte scritte per svago di mente, sfogo di sentimenti e tentativo di istruzione pubblica degli italiani (Sellerio, 2006).

Come si vede, ce ne è abbastanza perché questo fervore editoriale stuzzichi la curiosità con due domande, l’una attaccata all’altra, che rapide, volanti, si affacciano alla nostra mente. La prima: perché Prezzolini? E quindi, immediatamente dopo: perché oggi Prezzolini? Quanto al primo interrogativo, basta leggere una qualunque delle sue opere, sempre agili, sempre asciutte, che trattengono l’attenzione sino all’ultimo senza mai stancarla con giri troppo affannosi e avviluppati, basta leggere una qualunque delle sue opere, dunque, perché la risposta ci si pari dinanzi con l’immediatezza stessa dell’evidenza: perché Prezzolini? Ma perché Prezzolini ci sforza alla chiarezza, alla chiarezza con noi stessi, intendo, che è poi l’ossigeno della vita spirituale. Anche quando dalle sue opere si esce con un che di insoddisfazione, anche allora, soprattutto allora direi, non è dato farvi cenno e tirare innanzi, come di cose importune che turbano l’ordine delle nostre certezze. E proprio per questo, per questo strattone alle acquisizioni più consolidate, proprio per questo ci monta dentro un senso di sorda irritazione che a tutta prima ce le fa guardare con ciglio contratto. Poi però quelle opere stanno lì, efficaci, aguzze, un tantino animose e – specie quando allestiscono i principi del conservatorismo politico – inattese per audacia di immagini e di pensieri. Stanno lì: e una vocina interiore, quasi di rimorso, ci ammonisce a non disertare il loro confronto, pena quell’indolente sterilità che è la maledizione di chi fugge il dissenso; e fuggendolo si ritrova a macinare sempre lo stesso grano, a triturare sempre le medesime verità, senza che mai niente, mai nessuna contrarietà lo muova a precisare meglio siffatte verità, ad affinarle, e – perché no? – qui e là anche ad emendarle. Come appunto capita con Prezzolini; dai cui scritti perciò si ritorna con la mente chiarita – chiarita innanzitutto con se stessa, come dicevamo – non foss’altro perché ci costringe a fermare i punti di consenso e di dissenso, a evidenziare le luci (ciò che ci paiono le luci) e le ombre (ciò che ci sembrano le ombre) del suo magistero. Il tutto all’insegna di quella pulizia semplice e onesta che dovrebbe essere il primo scrupolo dell’intelletto.

Questo basta e altro non occorre per tornare a Prezzolini. Già: ma perché tornarvi oggi? Certo, meglio tardi che mai; e però sarebbe comoda pigrizia dei luoghi comuni sciogliere così il secondo interrogativo che s’era annunciato all’inizio. Dopotutto, non c’è veleno lento della dimenticanza che possa diminuire la sua figura. Grande Prezzolini lo è stato ieri, grande è oggi e grande, verosimilmente, lo sarà domani. Pure, soltanto adesso lo si ripulisce dal fumo e dalla ruggine che vi hanno depositato gli immemori. E allora insistiamo: perché? Perché solo ora si riscoprono le sue virtù? Non abbiamo certezze da esibire al riguardo, ma un’ipotesi – questa sì – sia permesso di formularla. Ed è che la destra politica voglia ritrovarsi sotto il palpito di una bandiera da cui le venga come il blasone di nobiltà alla sua azione moderata e liberale. Chi meglio di Prezzolini? Prezzolini, dunque, quale vena da cui stilla goccia a goccia la sapienza della moderna politica conservatrice. Se questo è, se l’ipotesi non è infondata, allora bisogna attrezzarsi bene; attrezzarsi per fugare le perplessità di chi dubita che Prezzolini possa servire alla bisogna. Potremmo formulare subito queste perplessità e questi dubbi, che però appunto perché espressi di volata avrebbero un po’ della perentorietà apodittica. Meglio quindi invocare la pazienza del lettore ed invitarlo a ripercorrere le principali tappe che hanno scandito il conservatorismo di Prezzolini. Di poi, il problema – se non proprio la risposta – si annuncerà da solo, quasi spontaneamente, per la forza interiore del solo ragionamento. Il cui punto d’attacco va arpionato proprio lì, al bisticcio semantico con cui più e più volte Prezzolini si compiacque di definire se stesso: anarchico conservatore, così volle presentarsi.

“Anarchico conservatore”, sicché: formula simpaticamente contraddittoria che proruppe dalla fantasia sempre un po’ sbarazzina di Prezzolini. Il quale, però, posto dinanzi all’ingorgo di termini così reciprocamente repulsivi, non esitava a chiarire che prima fu anarchico e poi, solo in seguito, conservatore. Anarchico lo fece la natura con l’istintiva ripulsa per la disciplina familiare e le convenzioni sociali; conservatore lo divenne dopo, per consumazione degli anni, delle esperienze e delle illusioni. Delle illusioni soprattutto. Specie di quelle generosamente e un po’ spensieratamente ottimistiche che egli coltivò durante gli anni del “Leonardo” e della “Voce” (più del “Leonardo, per la verità, che della “Voce”) quando immaginò che un cenacolo di intellettuali potesse accendere negli uomini il fuoco sacro della passione redentrice, tra le cui fiamme – alimentate da una inedita passione per il grande e l’eroico – bruciassero per sempre quelle piccinerie e quelle grumosità materialistiche che altrimenti avrebbero incatenato l’umanità al dozzinale e al mediocre. Era insomma la trepidazione antica, sempre quella, sempre la stessa, che con l’implacabile regolarità di un metronomo segna il tempo degli intellettuali, i quali alla denuncia del generale decadimento accompagnano sovente la volontà di riscattare i destini del loro prossimo. L’intellettuale, dunque, quale sacerdote della rigenerazione morale e intellettuale del suo Paese. E anche Prezzolini, come altri (non solo in Italia), piegò al fascino di questa suggestione. Con una differenza però: che gli altri, esacerbati dalle difficoltà dell’impresa, esulcerati da un’umanità indifferente alla sua stessa salvezza, inaspriti dunque da resistenze inattese e perciò stesso moleste finirono poi per convertirsi in mentori del potere totalitario e chiedere così espiazioni di sangue al loro ansito di purificazione; là dove Prezzolini si confinò nell’isolamento e volle restringersi ad una visione pessimistica della vita, ora solo rassegnata e malinconica, ora invece urticante e risentita. Quasi una riprova che il pessimismo feroce della maturità è spesso il rimbalzo obbligato dell’ottimismo scapricciato della gioventù.

Comunque sia, quei difetti, quelle storture, quei mali che prima gli riuscivano odiosi ma non incorreggibili (e dunque tanto più odiosi quanto meno incorreggibili), quel mali che giudicava emendabili perché non scolpiti nei destini dell’umanità, quegli stessi mali, da un certo momento innanzi, gli apparvero come ineluttabili, quasi fenomeni naturali che si ripetono con la stessa inesorabile ostinazione con cui il giorno si alterna alla notte, e al cospetto dei quali perciò non rimane che prenderne atto, contentandosi di sapere che così è stato sempre e che sempre sarà così.

Ne L’Italiano inutile c’è una pagina bellissima, anche letterariamente bella, di quella bellezza tragica che risplende una sola volta nella vita, al momento del riepilogo, quando alla resa dei conti l’anima si accende del fervore di una sincerità estrema. Davvero: vale più di mille considerazioni e non sarà inutile riportarla per qualche tratto: “Son consumato – scriveva Prezzolini – liso e senza rammendo possibile. Ho giocato tutte le mie carte. Ho adoperato tutti i fazzoletti e tutte le pezze da piedi. Tutto è finito per parermi eguale: gli spaghetti, su cui ho scritto un libro, e la filosofia di Machiavelli e del machiavellismo, su cui ne ho scritto un altro, per simboleggiare che nulla mi pare superiore o inferiore, la gloria e l’infamia, il corpo e l’anima, il santo e il masnadiero, la buccia e la polpa. Non credo in nulla, di nulla, su nulla, per nulla”. E poi, come scavando tra le macerie dei suoi antichi ideali, confessava: “Quand’ero giovane, speravo di riformare l’Italia, o almeno un gruppo di italiani; oggi c’è chi vuol riformare il mondo. Tutte cose impossibili… Quello che speravo mi fa ridere oggi, che vedo quel che è accaduto. Quello che accadrà, farà ridere quelli che sperano oggi” (1). E dunque? Dunque “Un savio si muoverà con precauzioni, senza aver fiducia in nulla e sapendo che, mutando, tutto poi rimane in fondo come prima” (2).

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“Tutto poi rimane in fondo come prima”: è qui che matura il distacco dalle espansioni della giovinezza, ed è precisamente in questa formula spiccia che si compone il pessimismo conservatore di Prezzolini (pessimismo e conservatorismo, amava ripetere, procedono gemelli l’uno con l’altro). Intendiamoci: non che negasse i mutamenti, ma erano mutamenti epidermici, leggere increspature quelle che si compiaceva di registrare; un po’ come avviene per uno specchio d’acqua in tempesta, agitato e scomposto alla superficie ma quieto e tranquillamente immobile alla profondità. Sicché a chi fosse capitato di sondarne i fondali, si sarebbe rivelato un mondo senza tempo, indurito dalla ripetizione e dall’identico, dove il presente replica il passato e il passato è eguale, desolatamente eguale al futuro. “I tempi – sono parole di Prezzolini – sono stati sempre su per giù corrotti, immorali, vergognosi, pieni di birbanti e di stupidi come oggi” (3).

Come si vede, giriamo a un di presso nello stesso ordine di idee di Pareto, autore col quale egli confessava di avere “moltissimo” in comune (4), a cominciare dalla convinzione che gli “uomini, lupi sono e lupi rimarranno” (5). Insegnamento antico, questo, che rimanda ad Hobbes e su su fino ad Agostino (il suo amato Agostino); insegnamento antico, dunque, le cui sonorità si dilatano in circolo con lentezza, l’ostinata lentezza, diremmo, delle cose che ebbero una origine remota e che pare non debbano finire mai. E che certo non finiscono con Prezzolini, il quale pur adattandolo a nuovi ascoltatori e magari mutandolo nelle variazioni ne riprende il motivo di fondo e lo suggella con la sua autorità: “Salvo gli imbecilli ottimisti – si chiede – chi non sente che i progressi innegabili della scienza e delle tecniche non ci hanno portato un passo più avanti moralmente?” Da cui, come un epicedio, lo sconsolato finale: “l’uomo ci appare il più crudele animale che sia apparso sulla faccia del globo terrestre” (il corsivo, si badi, è proprio di Prezzolini) (6).

D’accordo, si dirà: c’è stato cambiamento. E quanto profondo! Eravamo partiti dall’intellettuale della rigenerazione ed ecco che, sull’onda velenosa dei vizi umani, siamo stati trasportati davanti all’intellettuale della rassegnazione. Come tale, Prezzolini si chiude ad ogni apertura sugli orizzonti del progresso e, dissimulata sotto una irriverenza talora beffarda, si indovina la piega triste di chi, alla fine, non concede più nulla agli uomini; non la bontà, non l’intelligenza, non l’ansia di miglioramento. Niente, più niente; tutto è già concluso e la storia dei popoli si svolge proprio così: come una farsa un po’ oscena in cui si rappresentano stancamente, monotonamente, (“ciclicamente” direbbe Pareto) gli errori e le follie della nostra degradazione.

D’accordo, dunque. Cambiamento c’è stato. Ma, per tornare al problema iniziale, non si vede quale remore possano venirne alla dottrina liberale. E anzi, sarebbe da chiedere: non è proprio da qui che muove il liberalismo più avvertito? Cosa fermenta nell’esigenza liberale di limitare il potere? Non fermenta proprio la convinzione che gli uomini fanno paura per la loro cattiveria, e specialmente fanno paura quando dispongono di una certa autorità sui loro simili? E dunque, se si vuole – come i liberali vogliono – che dall’alto del comando questi uomini non si abbandonino agli istinti più feroci della loro bestialità, se si vuole che risparmino ai loro simili lo strazio della rapina e dell’umiliazione, se si vuole tutto questo non bisogna certo confidare nella soavità dei loro cuori e nella dolcezza del loro animo. No, sulla simpatia umana non si costruisce nulla; e sicuramente non è così, non è affidandosi alla buona volontà altrui, che si protegge la dignità dei singoli. Insomma: non è che i potenti non vogliano tenerci i piedi sul collo; semplicemente alcune volte non possono. E non possono precisamente quelle volte in cui il loro istinto di preda è imbrigliato da tutta una serie di vincoli e di accorgimenti giuridici; che, poi, sono i vincoli e gli accorgimenti che fanno la gloria della tradizione liberale. E’ così che dalla concezione pessimistica della natura umana si arriva alle limitazioni liberali del potere. E allora, se è vero che liberalismo e pessimismo procedono di conserva e che l’uno si sostiene solo con il puntello dell’altro, chi meglio di Prezzolini? Quale linfa più ricca, più saporosa, più vitale che la sua denuncia della corruttela umana? Perché mai, dunque, revocare in dubbio i titoli che egli potrebbe vantare al cospetto della scuola liberale? Perché?

Intanto perché c’è pessimismo e pessimismo; c’è un pessimismo radicale e un pessimismo moderato. Il pessimismo moderato, pur facendosi beffe delle “magnifiche sorti e progressive”, non esclude che l’umanità cammini e qualche volta – qualche volta! – vada avanti, a piccoli passi beninteso, magari incespicando in mille insidiosi trabocchetti e comunque nel ben chiuso recinto degli obblighi e dei comandi dello Stato. Ma di questo pessimismo (che, pure, come vedremo percorre le opere di Prezzolini) ci occuperemo meglio dopo quando vorremo saggiare se almeno da quella parte, meno sferzata dalla disperazione, possano germogliare semi di sapienza liberale che invece vengono come essiccati dal gelo della sfiducia, dell’abbattimento e, appunto, del pessimismo radicale. Radicale nel senso preciso che radica gli uomini nel peccato, che li mura nell’errore e non ammette che possano venirne mai fuori (“tutto poi rimane in fondo come prima”, ricordiamo? è la frase di Prezzolini). Ora, se tutto rimane come prima, se l’uomo resta sempre il medesimo, il medesimo “crudele animale” che sbrana gli altri animali – come nell’assunto che Prezzolini mutua da Hobbes – se dunque l’uomo è hobbesianamente sempre la stessa irredimibile fiera, rigore vorrebbe che si dimostrasse come e perché Hobbes abbia sbagliato; come e perché cioè egli abbia inferito da quella premessa iniziale una conclusione errata, illogica o inconseguente. Ma se questa dimostrazione manca – e non risulta che Prezzolini l’abbia fornita – allora…

Allora bisogna seguire Hobbes fino alla fine, fin lì dove ritiene che l’uomo, questa belva sanguinaria nominata “uomo”, può essere governato solo da un sovrano che gli incuta paura e lo schiacci sotto il peso della sua forza. E che sia proprio questa – la logica della forza – a suggellare l’antropologia più radicalmente pessimistica, viene confermato proprio da Prezzolini, quando Prezzolini – talora con sospiri di pena, talaltra con accenti di amarezza, ma sempre con parole ghiacce e dirette – richiama questa puntuta verità: “Lo Stato nasce dalla cattiveria degli uomini. E’ un rimedio ad essa. Senza Stato noi ci mangeremmo vivi. Lo Stato rimedia a questa mutua distruzione e nulla più” (7). Davvero “nulla più”? Non diremmo. Perché se così fosse, se tutto si riducesse ad assicurare la pace in un mondo popolato da creature corrotte, allora cadrebbe come superflua la distinzione fra le varie forme di Stato: dopotutto, pace è quella assicurata dai capricci del satrapo mesopotamico e pace è quella garantita dalle leggi di una superiore Costituzione. E come? Lo scudiscio e i patiboli sono identici alle libertà e ai diritti? Veramente, come vuole Prezzolini, “l’uno equivale all’altro”? (8). E soprattutto, ed ecco che ritorna il dubbio iniziale: è conclusione congrua con i valori del liberalismo?

Certo che no. Ma Prezzolini non sarebbe Prezzolini se non spiegasse questa equivalenza con gli argomenti di una intelligenza raffinata, acuta e sottilmente perfida. “Noi parliamo spesso dei nostri diritti – fa notare –, ma cosa accadrebbe se non ci fosse la forza per sostenerli? Se oggi ci si può riunire a trattare liberamente di argomenti che ci paiono interessanti, lo dobbiamo alla polizia che circola per le strade e che impedirebbe ad altre persone di differente opinione di darci disturbo” (9). E allo stesso modo, “la libertà di passeggiare per le vie, di commerciare onestamente, di votare per chi pare, non hanno altra garanzia che la minaccia del carcere.” (10). Precisamente quel carcere che presiede alla coesione del regime dispotico. Donde l’equivalenza di cui sopra.

Il ragionamento è suggestivo. Ma non convince. Intanto perché, come sappiamo, già sul piano dei valori esso sdrucciola per la china della tirannia, da cui niente e nessuno – nemmeno il liberale di destra – può riscattarlo alla causa della libertà. E pazienza se soltanto i valori – alcuni valori, beninteso, – ne pigliassero scandalo e gli si rivoltassero contro. Il punto è che anche i fatti ne denunciano l’incrinatura iniziale, quello che guasta la base stessa su cui l’argomento è piantato. E infatti, se i diritti poggiassero unicamente sulla forza, a rigore i depositari ultimi della forza, le autorità supreme cioè, potrebbero in ogni momento attentare alla loro esistenza e sacrificarli alla loro cupidigia. Pure, si astengono dal farlo. Perché? Perché i diritti originano innanzitutto da un certo ambiente sociale (gli stili di vita, le tradizioni, le costumanze e insomma la storia dei popoli liberi), e prosperano a misura che si nutrono di quelle entità avviluppanti e atmosferiche che sono le credenze dell’opinione pubblica. Ed è appunto per questo che negli Stati di libertà i governanti si astengono dal manometterli: per non sfidare l’opinione pubblica, con tutto quello che ne verrebbe in termini di resistenza e di ribellione. Non i poliziotti o le prigioni, dunque, ma l’opinione riesce decisiva per i destini della libertà. Che poi, guarda caso, è l’insegnamento tirato a lucido proprio dalla letteratura conservatrice, sempre pronta peraltro ad opporlo ai disegni sanguigni e nerboruti di quanti confidano troppo nell’efficacia degli strumenti coercitivi. Il conservatorismo cattolico di Lamennais, per dire, quel conservatorismo che fu una autentica miniera di ispirazione per Tocqueville (e altri), il conservatorismo di Lamennais insegnava proprio questo, che “nessun governo, nessuna polizia, nessun ordine, sarebbero possibile se gli uomini non si trovassero ad essere uniti dai legami che già li costituiscono in stato di società” (11). Dove per “stato di società” è da intendere una condizione primigenia in cui gli uomini stanno insieme non perché soggiogati dallo stesso potere ma perché riuniti dalla stessa educazione, dalla medesima eredità (sì, certo: anche i caratteri ereditari contano), dagli identici ricordi e da quant’altro ascende dalle profondità remote, oscure e limacciose di una comune tradizione. Precisamente quella tradizione svigorita e tenuta come in penitenza nelle riflessioni di Prezzolini. Di questo Prezzolini, almeno.

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Già: perché poi c’è un altro Prezzolini, meno ulcerato con il prossimo e proprio per questo più incline a riconoscere le capacità coesive dei costumi e delle credenze. Non che egli sia mai venuto a patti con le tentazioni dell’ottimismo: dall’inizio alla fine, sempre, senza intermissione, l’umanità gli apparve imbestiata e incapace di rifare diritto ciò che la natura volle storto e scrignuto. Solo, però, che mentre nel primo Prezzolini la bestialità veniva domata dall’alto, con le trafitture delle sanzioni, ora, nel secondo Prezzolini, viene trattenuta dal basso, per virtù di regole che la società secerne spontaneamente e che poi – grazie soprattutto alla famiglia e alla scuola – provvede ad iniettare nelle coscienze dei singoli. Va da sé che tali regole non sono il parto di una qualunque mente superiore e neppure il prodotto di un improvviso colpo d’ala. No, esse non vengono alla luce ex abrupto, ma si trasmettono con lentissime modifiche, di generazione in generazione. In tal modo, i nuovi venuti, i fanciulli, sono i depositari di esperienze secolari, i custodi di un passato lontano che rivive negli insegnamenti dei loro genitori e dei loro maestri. Così forgiate, le loro personalità vengono abilitate al consorzio umano; e tutto questo perchè ad un certo punto, le regole antiche del costume, i principi tradizionali della morale e le credenze avite divengono come una specie di seconda natura, di fatti naturali che non è più abitudine discutere, proprio come non si suole discutere il calore del fuoco o il freddo della neve. “Il vero conservatore – scrive Prezzolini, questo secondo Prezzolini – è piuttosto pessimista per natura; non crede che gli uomini nascano buoni e siano fatti cattivi dalla società, bensì che quel poco di buono che ci si può aspettare dagli uomini è il risultato lento di secoli di lotta e di compressione della società” (12). “Della società”, si badi; e non più dell’apparato coercitivo che la sorveglia. E poi, ancora meglio: “Un conservatore è convinto che l’organizzazione della società trovata da giovane non fu il frutto dell’intelligenza umana… ma che è diventata così in seguito a molte esperienze di varie generazioni che, messe di fronte alla realtà dei fatti, si son dovute sforzare di convivere insieme ed hanno trovato la soluzione incosciente in certi compromessi, in alcune situazioni contraddittorie.” (13). Dove ancora una volta s’avanza il riguardo per il lavorio dei padri, il rispetto per la sapienza dei loro trascorsi, e scema d’importanza la capacità costrittiva e il ruolo “ortopedico” dello Stato.

Non solo. Ma proprio rafforzando quel che per l’innanzi aveva depresso, proprio per questo senso più robusto della tradizione, proprio per questo, Prezzolini dischiude uno spiraglio sottilissimo sugli orizzonti della storia, non più ridotta a vicenda disperata e chiusa in se stessa; anzi, è da queste inedite aperture che qualche volta – qualche volta! – fanno capolino le trasformazioni sociali e i cambiamenti politici. Il conservatore – scrive ora Prezzolini – “accetta la necessità di cambiamenti politici, poiché la storia è cambiamento continuo; ma vuole che il cambiamento avvenga con prudenza, con calma, con successivi e tempestivi gradi” (14). I quali gradi sarebbero evidentemente impossibili se gli uomini, presi dalla vertigine della novità, annichilissero il passato; il loro passato, si capisce, con la quantità di bene (poca) che realizzarono e la quantità di male (tanta) che procurarono ma che, pure, può suscitarli al meglio per virtù di memorie e di ricordi; specie per le memorie dei tentativi falliti e per i ricordi degli errori compiuti dai quali, se non altro, può venire l’ammaestramento a non ripeterli più, o comunque a non ripeterli tal quali si replicherebbero dove venisse premiata la colpevole negligenza dei dimentichi. In questo senso – ha ragione Prezzolini – “per andare avanti, bisogna qualche volta arretrare” (15). Ma arretrare – come si premura di chiarire – non significa affatto “rifare esperienze fallite” (16). E’ l’esatto contrario: arretrare, sì, ma per spremere dalle sconfitte del passato la cautela, la circospezione, l’accortezza; tutto, tutto quello che è necessario per procedere oltre. Tutto, fuorché la rassegnazione desolata di chi giudica che la partita degli uomini sia ormai perduta e senza più possibilità di rivincita.

“L’uomo – è stato insegnato, ed è insegnamento dal quale nessun conservatore può decampare senza tradire se stesso – l’uomo “mercé il suo potere di ricordare, accumula il suo proprio passato, lo possiede e ne trae profitto … Questo è l’unico tesoro dell’uomo, il suo privilegio e il suo segno distintivo. E la ricchezza minore di codesto tesoro consiste in ciò che di esso appare accertato e degno di essere conservato: l’importante è la memorizzazione degli errori che ci permette di non commettere sempre gli stessi. Il vero tesoro dell’uomo è il tesoro dei suoi errori” (17). L’errore, dunque; l’errore quale occasione del cambiamento: eccola qui, come rappresentata in boccio, la radice prima del magistero liberale, i cui frutti – colti a destra o spiccati a sinistra – germogliano tutti da questo iniziale principio. Il liberalismo è alimentato dalla persuasione che noi impariamo a furia di prove e di errori e che se non cominciamo a provare e ad errare non impareremo mai. Sbagliamo? Certo che sbagliamo. Ci mancherebbe! Abbiamo sbagliato ieri e, forse, sbagliamo anche oggi. Ma proprio perché abbiamo sbagliato ieri, e forse sbagliamo oggi, chissà… chissà che domani non ci capiti di riuscire. Del resto, i colpi andati a vuoto servono proprio a questo: a circoscrivere l’area del possibile bersaglio. L’importante però è che gli sbagli siano sempre e soltanto i nostri sbagli; gli errori solo e unicamente i nostri errori. Diversamente non ci ravvederemo mai. Mai ci educheremo quando altri decidono per noi del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, sottraendoci alle difficoltà della vita e avvezzandoci ad ottenere tutto dall’alto, da coloro che lassù presiedono graziosamente ai nostri destini. Allora, ma solo allora, la storia dei popoli si consumerebbe in una sorta di rugginosa immobilità, con uomini snervati, servili e incapaci di affrontare da soli, con il loro petto, i colpi dell’esistenza. Ne viene la necessità, almeno per quanti paventano questa ipotesi come la sciagura peggiore che mai possa disonorare il genere umano – ne viene la necessità, dicevamo, di una zona franca, di un’area libera entro la quale ciascuno possa sperimentare le proprie iniziative e mettersi alla prova senza che nessuno – men che meno lo Stato – intervenga a comandare o a proibire alcunché. Donde l’esigenza di limitare il potere con i ritrovati della sapienza liberale. Per questo, non per altro, Prezzolini “è contrario alla espansione dei poteri, dei diritti, della beneficenza dello Stato” (18); per questo: per questo pessimismo ammorbidito da un maggiore riguardo per la tradizione. La quale tradizione, aprendo alla possibilità dei cambiamenti, lo muove a polemica contro i poteri onnipervasivi, contro le legislazioni incontinenti e, insomma, contro lo Stato-tutore che sequestra gli individui e impedisce loro di maturare come uomini. Il potere limitato, dunque, rinvia ai mutamenti; e i mutamenti a loro volta rimandano ad un pessimismo che è stemperato e reso meno contratto da una più larga deferenza per le virtù della tradizione. Eccole qui, serrate con gli anelli delle idee madri, le quattro componenti del conservatorismo di Prezzolini (ribadiamo, del secondo Prezzolini): a) moderato pessimismo antropologico; b) divenire storico; c) senso augusto della tradizione; d) Stato liberale.

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Non c’è che dire: i tratti caratteristici del conservatorismo liberale ci sono tutti, e tutto sembrerebbe tenersi. Sicché potremmo finalmente sciogliere con un “sì” squillante e vittorioso l’interrogativo che ci ha accompagnato sin qui: sì, Prezzolini ha ancora molto da insegnare e bisogna che il suo nome rimanga fermo nella memoria della destra se la destra vuole riuscire ad una politica che sia, insieme, moderna conservatrice e liberale. Sì, dunque, il suo insegnamento è tesoro vivo; purchè, beninteso, impreziosito dai ripensamenti del “secondo” Prezzolini, quello che per rapidità di formula, potremmo dire il “Prezzolini della tradizione”, nel senso del Prezzolini che riporta ad un primo piano di prospettiva proprio quella tradizione che, altrove, aveva fiaccato e chiusa in un giro troppo stretto per essere il suo. Sennonché…

Sennonché, anche a tirare da questa parte le fila dei suoi ragionamenti, non è destino che la destra ne riceva beneficio. Non la destra italiana, per lo meno. La quale – giusta l’autorità della tradizione – dovrebbe “continuare mantenendo” (19), ossia, con assaggi e ritocchi dovrebbe rinverdire il patrimonio di costumi lavorato dall’esperienza del suo popolo, del popolo italiano appunto. Che però, combinazione, una storia ingrata vuole duro e refrattario a qualunque sviluppo liberale. Sì, proprio: per Prezzolini, “l’Italia è un paese tradizionalmente antiliberale” (20); e “il popolo italiano non è capace di libertà” (21). Ora, poiché – come egli stesso ammonisce – il più prezioso insegnamento dei conservatori è che “le leggi vanno concepite in relazione all’indole storica dei popoli” (22), ne nasce questa conseguenza: che gli istituti e i diritti della dottrina liberale non si modellano bene sugli italiani; sono come un abito preso a prestito che essi dismetteranno non appena ne apparirà un altro più aggraziato, che aderisca meglio alla curvatura naturale dei loro lineamenti. Piaccia o meno, ma questo è un punto assolutamente centrale nel pensiero di Prezzolini: ogni qual volta si è trovato a passare per i dintorni del carattere nazionale, e cioè per quell’insieme di istinti, gusti e abitudini che mescolati insieme fanno la tradizione del nostro popolo, sempre, ma veramente sempre, ha profittato dell’occasione per saettare contro di esso i fulmini della sua insoddisfazione. Talora brontolando minaccioso, talaltra prorompendo in aspre rampogne; in ogni caso concludendo con il cipiglio della medesima condanna: che cioè, sono parole sue, “la libertà e una delle sue componenti, il sistema parlamentare… sono prodotti della civiltà anglosassone, legati alla storia, alla razza ed alla potenza inglese o americana.”. E poi aggiunge: “Trasportate il liberalismo e il parlamentarismo nell’America del Sud o anche in Italia, ed ecco caricature risibili e dannose” (23). Parole gonfie, inturgidite dal dispetto, che poi gli esplodono dentro con il fragore di questo botto finale: “Finché non si capirà che Islanda, Svizzera, Inghilterra sono popoli che nacquero democratici, non si capirà nulla della democrazia, come capita ai professori di scienze politiche” (24).

A tanto, dunque, lo sforzava la concitazione della polemica! A mutare la storia in una requisitoria da pubblico ministero. Quasi che veramente vi siano popoli democratici per maestà di natali e altri, invece, che numi irati maledicano con il sigillo della servitù. E come? Civiltà nate sotto il segno della democrazia (e peraltro di quella delicatissima variante della democrazia che è la democrazia liberale)? Ma dove? E quali? Le civiltà anglosassoni, forse? Suvvia, non scherziamo! Bisogna davvero ricordare che solo nel 1807 l’Inghilterra vietò il commercio legale degli schiavi? E che ancora nel 1844 non c’era legge che proibisse al ministro degli Interni di sbirciare nella corrispondenza dei sudditi di sua Maestà? O che soltanto nel 1918 – ieri l’altro! – fu abolito il voto plurimo, la più clamorosa sconfessione del principio che vuole eguale il suffragio degli elettori? No, no; non è così che Prezzolini fa onore alla sua intelligenza. E soprattutto non è così che rende omaggio al principio – pure tante volte ribadito – che gli avanzamenti delle nazioni si producono procedendo per strade tortuose, con andate e ritorni, in penosa altalena tra conati di energia e prove di debolezza, in un cammino incerto e soprattutto lungo; tremendamente, maledettamente lungo. E più è lungo questo cammino e meno è dato di rapprenderlo in un unico “tipo”, di incastonarlo in un singolo carattere, come se questo carattere e questo tipo potessero coprire l’intera traiettoria della storia di un popolo. Certo, un momento dato e circoscritto nel tempo si lascia riassumere bene in un insieme di caratteristiche psicologiche così e così determinate; ma che poi tali caratteristiche valgano pure per i momenti precedenti (e, magari, per i momenti successivi) questo proprio no: è convincimento che richiede troppe mutilazioni, troppe manipolazioni, troppo ardite generalizzazioni per rispondere alla dignità del vero.

E dunque, chiedersi quale sia il carattere degli italiani è porsi una domanda scivolosa, che non si lascia catturare da una sola risposta; almeno finché non si precisi quali italiani e gli italiani di quale epoca. Diversamente, non si capisce perché il privilegio di personificare il carattere nazionale spetti a Bonifacio VIII e non invece che a san Francesco, a Guicciardini piuttosto che a Dante, a Crispi anziché a De Gasperi.

Come sono giustificate, perciò, le cautele di tanti critici quando ci restituiscono questo aspetto così umbratile, così angoloso della personalità di Prezzolini! Sono cautele velate da imbarazzi e riserve; le stesse riserve, peraltro, che più d’uno, già in vita, gli aveva opposto in amichevole dissenso, ma mai nessuno in maniera così franca e diretta come il sodale di sempre, come Papini cioè, là dove Papini in una lettera del 1949, gli scriveva così: “Il tuo malaccordo con l’Italia e gli italiani è un po’ una tua fissazione. Non v’è, in realtà, un carattere italiano unico ed omogeneo; c’è qui, come dappertutto, una grande varietà di tipi di uomini” (25). Verità, questa, che Prezzolini non avrebbe sottoscritto mai; mai, tranne che nei rarissimi momenti di abbandono, quando cedendo ad un tenero sentimento di appartenenza, era disposto a perdonare tutto all’Italia, finanche l’ingratitudine e la gelida indifferenza per i servigi che egli le aveva reso (“In cinquant’anni di vita letteraria – confessò ne L’Italiano inutile – nessun giornale italiano mi ha creduto capace d’essere un corrispondente in qualche paese di fuori, o in qualche regione di dentro; nessun editore si è mai sognato che potessi scoprir per lui degli autori o dirigere una rivista” (26): sono parole rivelatrici, dove fermenta tutta l’incandescenza e tutta la ferocia dei sarcasmi con cui strapazzò il suo Paese). E però, quando si arrotondavano le punte del risentimento, una più equanime generosità gli allargava l’animo: ed era precisamente allora che, bofonchiando un po’ come gli amanti traditi, si lasciava trasportare dalla piena della sincerità: “Quanto bene – sbottò una volta – si vuole in fondo a questo porco paese pieno di canaglie e d’infingardi, ma anche ricco di individui che mandano avanti la baracca per quelli che non fanno niente”. (27).

Se solo si fosse concesso più spesso a questa serenità di giudizi! Quanto ne avrebbe guadagnato la sua stessa teoria politica! Ma tant’è: il cruccio e non la distensione si conviene all’amante tradito. L’amante tradito, dunque: che è formula più congrua di quanto non riesca l’”anarchico conservatore”. E poi, chissà, potrebbe essere pure un bel titolo per un nuovo libro su Prezzolini…

Gaetano Pecora

Note:

  1. G. Prezzolini,L’italiano inutile, Rusconi, Milano 1983, p.370
  2. Ivi, p. 380
  3. G. Prezzolini, Ideario, Ciarrapico, Roma 1983, p.318
  4. G. Prezzolini, Intervista sulla destra, Mondadori, Milano 1994, p. 48
  5. V. Pareto, Carteggi paretiani, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1962, p.362
  6. G. Prezzolini, Cristo e/o Machiavelli, Sellerio, Palermo 2004, p. 78
  7. Ivi, p. 30
  8. Ivi, p. 80
  9. Ivi, p. 27
  10. Ivi, p. 38
  11. cit. da R. A. Nisbet, La tradizione sociologica, La Nuova Italia, Firenze 1977, p.160
  12. G. Prezzolini, Manifesto dei conservatori, Rusconi, Milano 1972, p.57
  13. Ivi, p. 135
  14. Ivi, p. 49
  15. Ivi, p. 47
  16. Ibid.
  17. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, ora in Scritti politici, Utet, Torino 1979, p. 805
  18. G. Prezzolini, Manifesto dei conservatori, cit. p. 53
  19. Ivi, p. 47
  20. G. Prezzolini, Idea e compito del liberalismo ora in Il Meglio di Giuseppe Prezzolini, Longanesi, Milano,p.247
  21. cit da A. Verrecchia, Giuseppe Prezzolini. L’ eretico dello spirito italiano, Fògola, Torino 1995, p.46
  22. G. Prezzolini, Manifesto dei conservatori, cit., p.83
  23.  Ivi, p. 86
  24. Ivi, p. 84
  25. cit. da A. Verrecchia, Giuseppe Prezzolini. L’eretico dello spirito italiano, cit., p. 93
  26. G. Prezzolini, L’italiano inutile, cit., p. 372
  27. cit. da A. Verrecchia, Giuseppe Prezzolini. L’eretico dello spirito italiano, cit. p. 97 

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