Il realismo di Cuoco
A due secoli di distanza dalla seconda pubblicazione del Saggio ( avvenuta nel 1806), la recente rinascita dell’ Archivio storico del Sannio offre una qualificata tribuna dalla quale riesaminare, senza i pre-giudizi del meridionalismo asfittico e in un rinnovato contesto storico, il caso Cuoco.
Ricollocare il dibattito sulla questione meridionale in un contesto che superi le anguste mura del provincialismo autolesionistico è l’impegno assunto dal direttore della pubblicazione: “ Una cosa, una cosa soltanto, però, sia consentito anticiparla fin d’adesso – avverte Gaetano Pecora nell’editoriale del primo numero – una rivista come l’Archivio storico del Sannio è giocoforza che prenda materia di riflessione dalle consuetudini, dagli eventi, dai personaggi che hanno fatto la storia di queste terre; né si vede da quale altra tempera possano venire riscaldate le sue pagine. Con l’avvertenza, però, che consuetudinieventi e personaggi vengano incastonati in un giro di problemi più ampio, che è poi il problema infaticato, eterno e vorremmo dire maledetto della questione meridionale. Diversamente, se manca questo respiro più largo, le pagine di storia locale si cangiano in pettegola erudizione campanilistica, e le ricerche sulle nostre radici, anche le più amorose, anche le più coscienziose, si rattrappiscono in minuzie che forse faranno la gioia dei dotti, ma che certo non si convengono a cittadini, e a cittadini in formazione quali sono (o dovrebbero essere) gli studenti dell’Università.”. 4
Inoltre il tramonto delle ideologie forti ha dissolto i vortici delle ortodossie che di volta in volta, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, hanno tentato di avvolgere e di risucchiare l’opera e la figura dell’autore del Saggio, a destra o a sinistra, descrivendolo, di volta in volta, come un conservatore, come un rivoluzionario o, peggio ancora come un cinico opportunista e trasformista.
Chi era Cuoco? A questa domanda non è possibile dare risposte definitive, ma con umiltà intellettuale possiamo contribuire a chiarire chi non era: Cuoco non era né un rivoluzionario giacobino, né un conservatore reazionario. Certamente egli – come lo ha definito Croce – era un illuminista. La formazione illuminista gli consentiva di comprendere le tesi dei giacobini napoletani, ma non gli imponeva di condividerle. L’affettuosa frequentazione dei salotti del giacobinismo partenopeo non si era mai trasformata in acritica condivisione dei progetti e delle analisi che si dibattevano. In proposito risulta illuminante la descrizione – certo romanzata, ma basata su accurata documentazione – redatta da Vincenzo Striano, del rapporto intercorso fra Cuoco ed i rivoluzionari napoletani.
Mentre l’esercito francese minacciava i confini del regno, – racconta Striano in un passo de Il resto di niente – dai Cassano si commentava e si derideva l’iniziativa della famiglia reale che, attraverso l’affissione di un manifesto, invitava la popolazione ad unirsi in preghiera per scongiurare il pericolo di un’invasione in difesa della patria.
“ << Ferdinando vuol fermare i Francesi con le preghiere>> esclama Marra.
«Eppure…» borbotta Cuoco, con la sua aria pedagogica, «C’è qualcosa di vero in quello stupido manifesto.»
«Avvocato!» grida sbalordito Marra. «Vi sta dando di volta il cervello?»
«No. Ma nella sostanza è vero che i Francesi, se venissero a Napoli, attaccherebbero quella che, per tanti napoletani semplici, è comunque la Patria. Distruggerebbero vecchi e saldi valori, come il trono e la religione. In vari casi insulterebbero le donne, saccheggerebbero i beni.»
«Che eresie stai dicendo!» interviene Gennaro Serra. «L’esercito francese non è un esercito come un altro. È l’esercito della rivoluzione! Della libertà.»
«Sarà» sorride Cuoco. «Però turberebbe quelle che il manifesto chiama “dolcezze della vita” e che sono, poi, le tranquille, semplici cose che rendono le giornate care ai miti Napoletani. Né si può dubitare che sovvertirebbero costumi patri e leggi.»
«Io penso vogliate scherzare» ribatte seccamente Marra.
«Non scherzo.»
«E allora dite assurdità. Il n’y a pas de patrie là où il n’y a pas de liberté.»
«Non c’è libertà per voi» s’agita Cuoco. «Per una parte minima della popolazione. Quella che pensa, legge, sa. O crede di sapere. Ma il popolo si sente libero, sereno, senza troppi problemi. Perché è il re che ci pensa.»
«Senza problemi? La miseria, la fame…»
«Aspettate» Cuoco poggia a Marra una mano sulla spalla. «Non esageriamo per amor di polemica. Nonostante l’aumento dei prezzi dovuto alla scriteriata operazione dei Banchi, a Napoli non si muore di fame. Con nove grana comprate un rotolo di maccheroni. Anche il pane. Con pochi carlini frutta e pesce a volontà, con mezza pezza siete un signore.»
«Et pour vous c’est suffisant! La vostra mentalità è esattamente quella di Capeto, del ministro Simonetti .>>. «Vincenzo sta facendo l’advocatus diaboli » interviene Gennaro, notando che Cuoco ha avuto un moto di risentimento.
«Niente affatto» insiste lui, secco. «Io guardo la realtà. E nessuno potrà negare che la venuta dei Francesi sovvertirà costume patrio, pace.»
«Pace, costume patrio…» borbotta Marra. << L’obéissance passive des esclaves.>>
«Io penso invece, – [ribadisce Cuoco ndr.] – e lo dico, a costo d’apparire un sostenitore di re Ferdinando, come mostra di ritenere il cittadino Marra, il quale varie cose non le sa… Dico che la venuta dei Francesi non risolverà i problemi del nostro popolo. Ci elargirà un bel periodo d’occupazione militare: con relative conseguenze.». 5
E, coerentemente, all’indomani della vittoria dell’esercito francese ed alla fuga del re, Cuoco non muta il suo atteggiamento critico nei confronti dell’agire politico del governo rivoluzionario. Commentando con Eleonora Fonseca Pimentel un proclama emanato dai nuovi governanti, egli esclama:
“ «Cose da pazzi! Da pazzi!»
«Che c’è, Vincenzo?» chiede, preoccupata Eleonora.
«Senti che razza di proclama ai Napoletani si sta compilando di là. Ne ho trascritto il principio. Ascolta. “Napoletani! Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema!”. E senti il resto. <<I destini d’Italia devono adempirsi: scilicet id populo cordi est, et cura quietos sollicita animos .>>
«Virgilio» osserva, perplessa.
«Sì. Ma anche se fosse Tacito o Cicerone, mi dici chi lo capirebbe?»
Cuoco s’agita nei tic.
«Questi non hanno compreso che il popolo non deve necessariamente conoscere la storia greca o romana per essere felice» sogghigna.
«Ma sapessi che vanno proponendo! Pagano vuoi costituire eforati, arcontati. Russo impedisce ogni discorso sensato con le sue utopie: vuole si vieti per legge l’uso dei cappelli, dei gilé, pretende si decretino l’abolizione della religione, la conversione dei preti in contadini.»
«Sono anche avidi» incalza Cuoco. «Non vogliono utilizzare per la Repubblica gli ex-impiegati del Regno. Gl’impieghi pubblici van distribuiti ai patrioti, a mogli, figli, nipoti dei patrioti.»
«Aboliscono i feudi con un tratto di penna. Chi aiuterà i contadini a vivere senza più guida? Non sono avvezzi alla libertà totale, improvvisa. Mi meraviglio di Pagano…»
«Basta proclamare la Repubblica» sentenzia Cuoco, ridendo. «Vedrai che tutto andrà magicamente a posto.»6
Cuoco non era un voltagabbana! Prima, durante e dopo i tragici avvenimenti del ’99, non muta la sua analisi ed il suo giudizio. E’ vero, egli seguiva gli avvenimenti senza manifestare una particolare tensione emotiva. Strano per un giovane di ventinove anni, ma spiegabile se si considera quel giovanotto un inconsapevole scienziato sociale.
Poi,trentenne ed in esilio a Milano, egli cercherà di elaborare il proprio senso di colpa per essere ancora vivo, dopo che i suoi migliori amici sono stati tutti giustiziati, nell’unico modo che gli è congeniale: ripercorrendo analiticamente e con spietata lucidità scientifica i tragici avvenimenti nel famoso Saggio. Ma non gli basta: per assolversi dalla colpa egli deve dimostrare, prima a se stesso e poi a tutti gli altri, di aver tentato di avvertire i rivoluzionari di quale utopia suicida stavano perseguendo. A tale scopo, in appendice al Saggio, egli pubblica i Frammenti delle lettere intercorse fra lui e Vincenzo Russo nel breve periodo dell’esperimento repubblicano. Nell’ultimo brano, col quale egli conclude proprio i Frammenti, riporta l’ ultimo accorato appello all’amico per dissuaderlo dei suoi infausti propositi: “ Ascoltami. Tu conosci la mia adolescenza e la mia gioventù; tu sai se io ami la virtù e se sappia preferirla anche alla vita… Ma quando, parlando agli uomini, ci scordiamo di tutto ciò che è umano; quando, volendo insegnare la virtù, non sappiamo farla amare; quando, seguendo le nostre idee, vogliam rovesciare l’ordine della natura: temo – egli conclude – che invece della virtù insegneremo il fanatismo, ed invece di ordinar delle nazioni fonderemo delle sètte.”7. Così, egli invoca, ricordando i suoi ammonimenti, una sorta di perdono postumo, ma non per questo intende abiurare alla suo realismo. Anche in questo passaggio straziante, Cuoco riafferma implicitamente il suo convincimento secondo il quale il sacrificio della vita non assolve i martiri dalle loro responsabilità storiche.
Infine, a coloro i quali, ancora oggi, insinuano il sospetto che I Frammenti rappresentassero “ un artificio retorico” e che Pagano non avesse mai conosciuto Cuoco, questi con due secoli di anticipo, nell’ultimo brano del frammento conclusivo redige una sorta di memoria difensiva: “ Io son dolente per non aver potuto conservare la lettera, che mi scrisse Mario Pagano dopo che Russo gli ebbe comunicate le mie idee. Sarei superbo dell’approvazione di un uomo, la cui morte, se è funesta alla patria, luttuosa a tutt’i buoni, è amarissima per me, che piango non solo la perdita del buon cittadino e dell’uomo grande, ma anche quella dell’ottimo maestro e dell’amico.”.8