Lo scienziato della politica
Come avevamo auspicato nelle pagine precedenti, proviamo a tirare fuori dalla “ pettegola erudizione campanilistica “ Cuoco e la sua opera. A tal fine cambiamo prospettiva: proviamo a rileggere il Saggio come un testo di scienza politica applicata e cerchiamo di comprendere il suo autore alla maniera di uno scienziato sociale. Ed è da questa nuova prospettiva, prima di procedere ad un commento critico del Saggio, che è già possibile formulare due considerazioni. Prima considerazione: fuori dagli angusti confini analitici e geografici meridionalisti, gli avvenimenti napoletani del ’99 e l’opera di Cuoco possono essere inscritti, a pieno titolo, in quel processo storico nazionale che ha generato l’Italia unita, indipendente e repubblicana. Pasquale Villani, a conferma di questa ipotesi, indica nel Saggio Storico << un punto di riferimento essenziale per il movimento risorgimentale>> e << un classico del pensiero politico italiano>>9. Seconda considerazione: l’indagine politologica di Cuoco si colloca perfettamente nell’alveo della scienza politica italiana che muove da Machiavelli fino ad anticipare i contributi di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. Quella scienza politica che, capace di indagare sui fatti come le scienze naturali osservano i loro oggetti di studio, rigetta la concezione irrazionalistica e provvidenzialistica della Storia. Per i << machiavelliani – spiega Gaetano Pecora,– [la scienza politica (ndr)] … deve tener dietro alla “verità effettuale”, dove verità effettuale sta per studio intelligente dei fatti. Dei fatti quali sono, beninteso, e non quali si vorrebbero che fossero. Importa poco che la realtà sia buona, giusta e morale; conta che sia la realtà. Il mondo è così e così; e il solo ufficio dello scienziato è pigliarlo com’è.>>.10 Che Cuoco possa essere annoverato fra i machiavelliani non è una mera ipotesi in quanto egli stesso in una pagina del Saggio ha cura di precisarlo. << La scuola delle scienze morali e politiche italiane seguiva altri principi >>, precisa lo studioso molisano, cercando una fonte di legittimazione per le sue tesi. << Chiunque – egli prosegue – avea ripiena la sua mente delle idee di Machiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva né prestar fede alle premesse né applaudire alle operazioni de rivoluzionari di Francia ché tosto abbandonarono le idee della monarchia costituzionale. Allo stesso modo la scuola antica di Francia, quella per esempio di Montesquieu, non avrebbe applaudito mai alla rivoluzione. Essa rassomigliava all’italiana, perché ambedue rassomigliavano molto alla greca e latina >>.11
In veste di scienziato della politica, egli denuncia l’astrattezza della Dichiarazione dei diritti e ne contesta l’universalità contrapponendo ad essa la Dichiarazione americana, che giudica più concreta e meno foriera di utopisici furori palingenetici. << La Francia aveva nel tempo istesso infiniti abusi da riformare. Quanto maggiore è il numero degli abusi, tanto più astratti debbono essere i princìpi della riforma ai quali si deve rimontare, come quelli che debbono comprendere maggior numero di idee speciali. I francesi furono costretti a dedurre i princìpi loro dalla più astrusa metafisica, e caddero nell’errore nel qual cadono per l’ordinario gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte, che è quello di confonder le proprie idee colle leggi della natura. Tutto ciò che avean fatto o volean fare credettero esser dovere e diritto di tutti gli uomini.
Chi paragona la Dichiarazione de’ diritti dell’uomo fatta in America a quella fatta in Francia, – egli argomenta – troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare alla ragione: la francese è la formola algebrica dell’americana. Forse quell’altra Dichiarazione che avea progettata Lafayette era molto migliore.
Idee tanto astratte e egli conclude – portano seco loro due inconvenienti: sono più facili ad eludersi dai scellerati, sono più facili ad adattarsi a tutti i capricci de’ potenti; i turbolenti e faziosi vi trovano sempre di che sostenere le loro pretensioni le più strane, e gli uomini dabbene non ne ricevono veruna protezione. Chi guarda il corso della rivoluzione francese ne sarà convinto.>>.12
Questo giudizio negativo espresso da Cuoco nei confronti della Dichiarazione dei diritti ha suscitato molte critiche, ma non bisogna dimenticare che il Terrore giacobino aveva lordato di sangue quella dichiarazione, eleggendola quale fonte di legittimazione per gli orrendi crimini perpetrati. Pur senza negare le conquiste civili prodotte soprattutto dalla prima fase dalla Rivoluzione francese, il Terrore non poteva certo ispirare le fiduciose speranze per il futuro della convivenza sociale da parte di osservatori ideologicamente disincantati e scientificamente orientati. Diffidare delle metanarrazioni, quindi, non stravolgere i rapporti mezzi-fini e attenenersi esclusivamente alla razionalità rispetto allo scopo, sono questi i contenuti dell’insegnamento cuochiano. Con un secolo d’anticipo rispetto a Weber, Cuoco abita in un mondo disincantato. << La forza della sintesi cuochiana – sostiene Villani nella parte conclusiva della Introduzione al Saggio – sta nell’aver reinterpretato e presentato Machiavelli e Vico e la più recente cultura settecentesca napoletana, alla luce della rivoluzione francese. Egli si legava così alla più profonda tradizione del pensiero italiano, ma la rigenerava, riflettendo sugli eccezionali eventi e problemi dell’età sua. L’esperienza della rivoluzione francese e l’accettazione di essa sono essenziali nel pensiero del Cuoco; gli fanno superare di colpo la concezione settecentesca e lo distinguono nettamente da un De Maistre o da un Burke, ai quali lo spirito “antigiacobino” e il senso della tradizione sembrano talora avvicinarlo. La partecipazione alla rivoluzione napoletana, la comprensione storica della controrivoluzione sanfedista, e poi in particolare la prova dell’esilio e le riflessioni e l’impegno del periodo milanese, lo pongono tra i sostenitori di un nuovo assetto nazionale per l’Italia; lo inducono a riflettere sulla forza dell’azione popolare, a studiare soluzioni per il rapporto popolo-classi dirigenti ben più articolate e complesse del paternalismo o dell’assolutismo illuminato di antico regime; lo portano ad apprezzare l’importanza sociale, politica e costituzionale dell’opera di rinnovamento e ricostruzione delle strutture statali e dell’ordinamento giuridico. Basterebbe considerare, – prosegue Villani – anche soltanto sul piano di una indagine lessicale, il nuovo significato e la frequenza, nel Saggio e negli altri scritti, delle parole nazione e popolo per intendere che l’esperienza della rivoluzione francese è base dell’originalità della riflessione cuochiana, la quale accetta come irreversibile l’assetto giuridico e sociale affermatosi nel 1789. I rilievi di astrattezza mossi dal Cuoco alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino non debbono trarre in inganno; i principi dell’Ottantanove – conclude Villani – nel senso dell’uguaglianza giuridica di fronte alla legge, del riconoscimento e della protezione della proprietà privata – con la conseguente abolizione degli ordini privilegiati e del regime signorile e feudale – sono il fondamento di tutto il sistema politico del Cuoco.>>13.