Il paradosso delle rivoluzioni
Il paradosso dei rivoluzionari progressisti, o che si autoproclamano tali, consiste nel tentativo di emancipazione delle classi subalterne attraverso l’impiego dell’ uso pedagogico del terrore. Un proposito, questo, espresso in termini chiarissimi da Robespierre alla Convenzione il 25 dicembre 1793: << La rivoluzione è la guerra della libertà contro i suoi nemici … Se la forza del Governo popolare in tempo di pace è la Virtù, la forza del Governo popolare in tempo di rivoluzione è a un tempo la Virtù e il Terrore. La Virtù, senza la quale il Terrore è funesto; il terrore, senza il quale la Virtù è impotente. Il Terrore – decreta il leder giacobino – non è altro che la giustizia pronta, severa e inflessibile. Esso è un’emanazione della Virtù….Il Governo della rivoluzione è il dispotismo della libertà contro la tirannia>>.14
Questo perverso atteggiamento delle élites rivoluzionarie giacobine nei confronti del popolo è scoperto e denunciato dal Cuoco: << Le idee di Robespierre – egli spiega in una preziosa pagina del Saggio che è utile rileggere per intera e con attenzione per coglierne appieno il valore demistificatorio – non potevano star insieme né colle altre idee della nazione francese, né con quelle delle altre nazioni di Europa. (…) Di un antico si diceva che o doveva essere Cesare o pazzo; di Robespierre si avrebbe potuto dire che o doveva essere il dittatore del mondo o pazzo. Ho cercato nella storia un uomo a cui Robespierre si potesse assomigliare. Alcuni de’ suoi amici ed anche de’ suoi nemici lo han paragonato a Silla; ma convien dire che i primi non conoscessero Robespierre ed i secondi non conoscessero Silla >>15, egli afferma con tono irriverente e sarcastico. Quindi, proseguendo nella descrizione storica del personaggio, scrive: << Robespierre ha molta somiglianza con Appio. Differivano nelle massime che predicavano; non so se differissero nello scopo che si avean prefisso, perché per me è ben lontano dall’essere evidente che Robespierre, predicando libertà, non tendesse al dispotismo; (…). Ambedue volevano stabilir colle leggi quel dispotismo, il quale non è altro che la forza distruttrice della legge. Ambedue ebbero quell’autorità, che Machiavelli chiama “pericolosissima”, libera nel potere, limitata nel tempo, onde nell’uomo nasce la brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi, non essendosi dati dalle leggi a quel fine al quale egli li indirizza, debbono per necessità divenir tirannici. (…). Ambedue – scrive Cuoco proseguendo nella sua coraggiosa denuncia – volean stabilire l’impero col terrore; non eran militari, né soffrivano la milizia della quale temevano, ma avevano alla medesima sostituita l’inquisizione ed una prostituzione di giudizi, che è più crudele di ogni milizia, perché è costretta a punire i delitti che questa previene ed accresce i sospetti che questa minora. Questa specie di tirannide, che chiamar si potrebbe “decemvirale”, è la più terribile di tutte, ma per buona sorte è la meno durevole.>>16. Ed è a questo punto dell’ indagine, condotta senza pre-giudizi ideologici, alla luce dei risultati ricavati dall’attenta analisi degli avvenimenti, egli conclude che : << La nazione sotto Robespierre fu costretta a salvar la sua libertà; sotto il Direttorio la sua indipendenza. >>17.
L’indagine cuochiana, eseguita con metodo storico-comparativo, non si limita, però, in modo esclusivo, né alle vicende francesi degli anni Novanta, né ai tragici avvenimenti partenopei del ’99. Essa va ben oltre. Con lucida consapevolezza, Cuoco dichiara: << Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt’i popoli della terra.>>.18 Egli, infatti, individua e confronta le fasi dei conflitti stasiologici più significativi spaziando dalla Roma dei Cesari alla Firenze di Machiavelli, riscontra le analogie della Rivoluzione puritana con quella giacobina. Cuoco, con quasi due secoli di anticipo, individua le fasi del processo rivoluzionario e formula un’ ipotesi di legge politologica quando afferma: << Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. >>.19 Egli intuisce che, se osservata come un fenomeno fisico, la dinamica di quelle rivoluzioni, che intendono realizzare, attraverso il sovvertimento dalle fondamenta dell’assetto del sistema politico e sociale di una nazione, una sorta di Totalmente Altro presentano, nel corso dei secoli, una sostanziale fenomenologia ripetitiva: << Quando io – egli precisa – paragono la rivoluzione inglese del 1649 alla francese del 1789, le trovo più simili che non si pensa: s’incomincia la riforma in nome del re, il re è arrestato, è giudicato, è condannato quasi dal re istesso; il popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle antiche>>.20 Egli comprende che tutte le rivoluzioni a carattere politico muovono dalla crisi dell’Autorità dominante, promettono la felicità per gli adepti ma si concludono miseramente nella dittatura e nel terrore.21 Cuoco individua la causa di questa puntuale eterogenesi dei fini nella drammatica contraddizione che mina dall’interno i regimi rivoluzionari che si ispirano ai valori egualitari e libertari: da una parte i leader rivoluzionari vogliono allargare la sfera della libertà dei cittadini, creare un ordine sociale in cui si realizzi l’ideale dell’uguaglianza; d’altra parte, dato che le masse in nome delle quali essi dichiarano di operare non sono in grado di comprendere le nuove idee ed i nuovi valori, essi sono costretti ad imporre con la violenza e il terrore il loro programma. << Le operazioni de’ popoli van soggette ad un metodo, non altrimenti che le idee degli uomini. – spiega l’autore del Saggio – Se invertite, se turbate l’ordine e la serie delle medesime, se volete esporre nell’Ottantanove le idee del Novantadue, il popolo non le comprenderà; ed invece di veder rovesciato un trono, vedrete esiliato un mezzo sapiente o venale declamatore. Al pari che l’uomo lo è nell’idee, un popolo è nelle sue operazioni servo delle forme esterne onde sono rivestite; l’esattezza esterna di un sillogismo ne fa bever, senza avvedersene, un errore; l’esterna solennità delle formole sostiene un’operazione manifestamente ingiusta. Incominciate per inavvertenza o per malizia da un leggerissimo errore: quanto più vi inoltrerete, tanto più vi scosterete da quella retta nella quale sta il vero; e vi inoltrerete tanto, che talora conoscerete l’errore, ma ignorerete la strada di ritornare indietro. Allora – egli conclude – pochi ambiziosi dichiareranno giustizia e pubblica necessità quello che non è se non capriccio ed ambizione loro; ed il delitto si consumerà non perché il popolo lo approvi, ma perché ignora le vie di poterlo legittimamente impedire. Quando l’errore vien da un metodo fallace, il ricredersene è più difficile, perché è necessità ritornar indietro fino al punto, spesso lontano, in cui la linea della fallacia si separa da quella della verità; ma, ricreduti una volta gli animi, per cagion di un solo errore distruggeranno tutto il sistema>>.22
Cuoco, anticipando le analisi che da Bertrand Russel a Karl Popper denunceranno la natura utopica e totalitaria delle rivoluzioni comuniste nel Ventesimo secolo, avverte:<< Il male che producono le idee troppo astratte di libertà, è quello di toglierla mentre la vogliono stabilire>>.23