Le celebrazioni del Centocinquantesimo Anniversario dell’Unità d’Italia sono state una buona occasione per fare le ore piccole per strada e per tenere i negozi aperti fino all’alba in nome delle supreme ragioni del commercio (ma d’altra parte così ha suggerito una circolare proveniente direttamente da Palazzo Chigi… suvvia, si specula anche sulle festività religiose, che sarà mai un 17 marzo qualsiasi?). Ma le celebrazioni sono state soprattutto l’occasione giusta per mettere in piazza quel sentimento patriottico un po’ pecoreccio e superficiale che ci fa sentire “fieri di essere italiani” dopo ogni vittoria della Nazionale di calcio, salvo poi essere quotidianamente privi di quel senso civico e di appartenenza che rende grande e coeso un popolo. Ammetto che il nazionalismo da balcone tricolore non mi ha mai entusiasmato: l’ho sempre trovato un po’ opportunista e inconcludente. Ma, aldilà della discutibile “Notte tricolore”, ciò che mi lascia perplesso è l’idea stessa di “celebrazione” che mi sa tanto di una apologia acritica, e quindi di un appuntamento destinato inevitabilmente a scadere nella retorica. Meglio sarebbe stato rendere questa ricorrenza un’occasione per approfondire i grandi temi irrisolti di un’epoca convulsa e basilare per capire la società odierna. Se è vero che l’età contemporanea nasce con la Rivoluzione francese, allora per capire il presente non si può prescindere da una conoscenza profonda del Risorgimento che di quella Rivoluzione è stata l’introiezione da parte della società italiana. Se infatti la breve stagione dei regimi napoleonici in Italia è stata caratterizzata da principi liberali importati e sorretti dalla spada francese, il Risorgimento è stato invece l’epoca della maturazione di quel seme piantato dalla Rivoluzione nelle menti degli italiani. O, meglio sarebbe, di alcuni italiani. Ma celebrare e conoscere sono due verbi che raramente si possono conciliare, e così anche questa occasione non è stata sfruttata per fare finalmente un po’ di chiarezza sui fatti che hanno cambiato l’Italia nel giro di pochi decenni (dai moti del ’20 alla presa di Roma passano appena cinquant’anni!). Conoscere la Storia vuol dire capire chi siamo oggi, perché, come dicevano gli antichi, la Storia è maestra di vita. Cercherò allora di evitare giudizi di valore, ma di specificare bene la complessa realtà dei fatti, stravolta completamente dalla storiografia propagandista di epoca fascista che ha descritto gli artefici dell’Unità in maniera distorta, stravolgendone il pensiero. Nei manuali che ancora oggi circolano nelle scuole sembra quasi che Vittorio Emanuele, Cavour, Garibaldi e Mazzini siano bene o male la stessa cosa: patrioti col chiodo fisso dell’Unità nazionale, unico loro ideale. Pochi sanno che, dopo la proclamazione del Regno, Mazzini complottava contro il nuovo stato. Pochi hanno ben chiare le differenze politiche (nettissime) tra questi quattro padri della Patria. Una Storia piatta come quella che ci hanno raccontato non serve a niente, è una favoletta priva di pathos che prima o poi stanca. Che Cavour fosse un liberoscambista benthamiano quasi nessuno lo sa: eppure la sua politica fu tutta opportunismo e abilità, più che progetto ideologico… Mi sembra oltremodo giusto spendere una parola in favore dei vinti, che la vulgata storica continua a ridicolizzare o demonizzare (perché dalla parte degli sconfitti ci sono “Franceschiello” e “il Re Bomba”, mentre da quella dei vincitori “il Re galantuomo”, “il Tessitore” e “l’Eroe dei Due Mondi”?). L’Unità d’Italia è stata fatta dal Piemonte, vero: ma questo perché seppe intercettare abilmente il favore dei Liberali (e dei Massoni) di tutta Italia (e d’altra parte il Re ed il Primo Ministro erano esponenti di quella fazione…). Ciò non vuol dire che coloro che passarono per nemici della Nazione fossero contrari all’idea di unificazione: semplicemente non accettarono le condizioni proposte da quella parte politica che poi ha fatto l’Italia. Quando Carlo Alberto intraprese la Prima Guerra d’Indipendenza, il granduca di Toscana (un Asburgo) inviò le sue truppe contro il consanguineo imperatore d’Austria (un altro Asburgo), e lo stesso fece Ferdinando di Borbone e persino quel reazionario di Pio IX! Questo dimostra che, in quella fase, un’altra Unità era possibile. Anche per quanto riguarda le sacrosante basi costituzionali che i Liberali invocavano contro l’assolutismo monarchico c’è da fare chiarezza: a Napoli, ad esempio, la Carta fu concessa dal Sovrano e mantenuta nonostante i fatti del 15 maggio. A suscitare i sospetti e le ire del Re furono le intemperanti pretese dei deputati napoletani che chiedevano (dopo neanche un anno dalla promulgazione!) una nuova Carta che gli desse più poteri. Quanto di pretestuoso vi fosse nelle provocazioni dei Liberali napoletani è evidente: ciò che volevano, in realtà, non era la Costituzione, ma il Piemonte! Nel calderone del Risorgimento, poi, non bollivano solo sentimenti liberali: c’erano pensatori cattolici (come Gioberti che pensava addirittura ad un’Italia federale con a capo il Papa!) e, a sinistra, i democratici. La figura di Mazzini è assolutamente complessa: personaggio di indiscutibile carisma, un po’ visionario, è la sintesi perfetta del Risorgimento italiano, movimento pieno di ideali teorici che si concretizzano poco e male. È emblematico che anche lui, che rappresentò l’ala sinistra del movimento unitario, pur affascinando tanti giovani non ebbe mai la capacità di uscire dalla logica della società segreta ed elitaria e di parlare alla gente comune. E così, per quei paradossi spietati della Storia, proprio il teorico della Repubblica fu costretto a vedere una delle sue spedizioni insurrezionali repressa dai forconi dei contadini di Sapri. Il Risorgimento non fu un grande movimento di popolo, uno di quei momenti che cementano lo spirito di una nazione. Fu piuttosto un fatto di pochi, ben inquadrabili politicamente ed economicamente. Quando, nel 1861, si votò per la prima Camera del Regno d’Italia, solo 420000 persone erano ammesse alle urne dalla rigorosa legge censitaria. Di queste, votarono solo in 240000. Perché questo scarto così vistoso? Perché i cattolici disertarono i seggi… Il Risorgimento, questa grande “rivoluzione popolare” (?), era stato fatto senza l’istituzione più radicata nel Paese e, per tradizione, più autenticamente italiana: la Chiesa Cattolica. Anzi, si può ben dire che esso sia stato fatto “contro” la Chiesa Cattolica, se è vero che nelle sedute del Parlamento si poteva facilmente ascoltare affermazioni come “Noi dobbiamo distruggere la Chiesa”. Che da queste premesse (tutte volte a dividere, non ad unire…) sia nato un Paese privo di sincera coesione non mi stupisce! C’è poi da ricordare che molte delle promesse rivolte dal “socialista” Garibaldi ai contadini meridionali furono presto (anzi, subito) tradite: la Strage di Bronte fu un eccidio compiuto dagli stessi garibaldini ai danni di “cafoni” siciliani. Quando poi dalle camicie rosse si passò ai gattopardi di Stato fu chiaro a tutti che la riforma agraria sarebbe stata una chimera e che nulla era cambiato. Ed oggi, 150 anni dopo? Il mondo ha 6 miliardi di anni, e 150 primavere non sono che un punto segnato lungo una retta infinita… Ippolito Nievo scomparve misteriosamente con la sua nave negli abissi del Tirreno, un po’ come l’aereo di Ustica, un po’ come Enrico Mattei. La camorra si accomodò nei salotti dei ministeri napoletani per concordare l’arrivo di Garibaldi, ed oggi nelle aule dei tribunali si sente parlare di accordi Stato-Mafia. Nel 1869 il Governo fu costretto a dimettersi in blocco perché coinvolto nello Scandalo dei Regi Tabacchi: la corruzione non è stata certo inventata ai tempi di Tangentopoli. Il Regno costruito dai Massoni è diventato la Repubblica della P2. E’ proprio vero: bisogna cambiare, affinché non cambi mai niente…
Gustavo Adolfo Nobile Mattei