Bilancio critico di un grande italiano 

A volte basta una parola, magari due, per dare l’avviso.  Sicché, se potessi, vorrei dire così al mio lettore: guarda il titolo di questo saggio, ma non vi indugiare troppo. Va invece diritto sul sottotitolo dove è scritto “bilancio critico”. Ecco: il bilancio critico.

Fermale al volo queste paroline, caro lettore, perché per poco che tu abbia l’orecchio allenato vi sorprenderai subito l’eco di una indagine che non intende spandersi in grandezzate retoriche e che invece vuole fare le giuste parti sul conto di Carlo Rosselli, registrandone gli attivi ma senza dimenticarne i passivi, accendendone le luci ma senza velarne le ombre. Del resto, già Norberto Bobbio quando scrisse l’introduzione a “Socialismo liberale” (l’opera, se non di più succo, certo più nota di tutta la produzione rosselliana), già allora avvertiva che “non è più tempo né di anatemi né di apologie”. E correva il 1979. Da quel momento, il filo degli anni si è quasi raddoppiato, e come sempre capita quando c’è di mezzo la lontananza degli anni, gli spiriti – ormai – dovrebbero potersi trovare riuniti sotto la bandiera dell’intelligenza pacificata; di una intelligenza cioè che non armeggia né parteggia, che non parla in atto di sfida ma neppure tace; che, invece, dice tutto col massimo rispetto ma anche con franchezza intera; tutto, tutto quel che c’è da dire dice, il bene e il male, la virtù e il vizio, perché  – vedi, caro il mio lettore – ottanta anni (tanto è passato dall’omicidio di Rosselli) sono forse pochi per assicurare definitivamente un Autore alla storia del pensiero politico; ma sono più che sufficienti per dirlo libero dai favori e dagli sfavori delle mode.

Assistito dal tempo, dunque, ho impostato il mio soggetto nel punto di maggiore resa – così credo, almeno –  mantenendolo ad una giusta distanza da me, né troppo vicino né troppo lontano, né più in là né più in qua, quel tanto insomma da potergli sempre girare dintorno e sollecitarlo con prove di collaudo, con verifiche di tenute e anche con spunti di contestazione. I quali ultimi non mi sono venuti difficili per un altra ragione ancora: perché non mi sono fermato a “Socialismo liberale” (che fu scritto tra il 1928 e il 1929) e, se mi fosse lecito, consiglierei a tutti di non arrestarsi lì: quello non è il punto di arrivo di Rosselli; se mai è il libro di accompagnamento che lo trasporta verso un’altra riva sulla quale alla metà degli anni Trenta esploderanno con fragore di novità tali trasformazioni e tali mutamenti che il critico guarda al suo iniziale liberalismo come attraverso un cristallo screziato e dice: tutto questo, ormai, non lo riguarda più.

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Non lo riguarda più il giudizio durissimo – un autentico manrovescio – con cui, un tempo, aveva atterrato il regime sovietico nella fangaia del confuso e del pericoloso e che poi, invece, egli risolleverà alquanto nella sua considerazione come sistema che avrebbe comunque liberato l’umanità dalle catene dell’oppressione capitalistica. Non lo riguardano più nemmeno le punte che un giorno aveva saettato contro la pianificazione comunista e che di seguito verranno arrotondate sino ad immaginare il collettivismo come uno dei possibili strumenti dell’emancipazione operaia. E soprattutto, e prima di tutto, non lo riguardano più le pagine dove Rosselli aveva incontrato il suo genio migliore, quelle più belle perché le più contente e dove anche oggi lui vuole essere cercato quando lo si vuole carezzare di lodi; le pagine, intendiamo, sulle libertà liberali che molti, che troppi, deprimevano quale ritrovato della sapienza borghese e che invece Rosselli, da posizioni assolutamente minoritarie, in un primo momento coccolò con la trepida dedizione di chi le sapeva patrimonio della umanità tutta (borghese o proletaria che fosse). In un primo momento. Poi…

Poi, anche qui, i cieli si oscurarono, le nubi infittirono e la giornata liberale, che non era neanche diventata piena, già ripiegò in una stagione cangiante di ore incerte che proprio quelle libertà facevano scapitare ad espedienti vuoti, ingannevoli, formali (e sarà quello il tempo in cui gli succederà di dire che “il fascismo è la democrazia ridotta a pura forma”). Potremmo continuare con questa rassegna di valutazioni che si voltano le spalle tra loro e che quasi non sembrano venute giù dall’inchiostro di una medesima penna (il giudizio sul fascismo, per esempio, o anche quello su Marx  saltella su note così diverse, è così risentito il contrasto tra ciò che fu detto prima e ciò che sarà detto dopo, che lì per lì non le diresti mai quelle note musicate da uno stesso autore). Potremmo continuare, si diceva, con questo piccolo campionario di passi che rimbombano ma non si rendono l’eco fra loro. Pure,  ci fermiamo qua. Intanto perché non è compito di una introduzione ripetere male e stretto ciò che si dispiega bene e largo nelle pagine del testo. E poi perché per molti lettori, questa potrebbe essere la maggiore novità del saggio: a che pro, allora, sciupargliela con poche frettolose righe introduttive, che per essere introduttive mancano di sfumature, sono prive di gradazioni, non possono guardare obliquo e devono di necessità andare rapide e diritte?

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Una cosa, però, vorrei aggiungere, e più che un’aggiunta si tratta di precisazione: ho appena detto che per molti potrebbe essere una novità scoprire l’indole contrastata di Rosselli e il suo negarsi alla continuità di un pensiero coerente. Questo, però, vale per molti, non per tutti i lettori. Sicuramente non vale per gli specialisti che già ne sapevano qualcosa dei suoi scompensi e dei suoi rapidi trapassi e che appunto per questo hanno disseminato i loro studi di locuzioni come “svolta a sinistra”, “frattura rivoluzionaria”, e “cesura para-comunista” di Rosselli.  Dunque non è a loro che mi rivolgo. O forse sì, è anche a loro che questo libro può parlare: perché, certo, anche io convengo che Rosselli non fu autore con un carattere solo; e pure io ho trovato in lui tante cose che discordano forte; ma di mio più mio, c’è la convinzione – doviziosamente argomentata, si capisce –  che la svoltata acuta di Rosselli, quella per la quale non lo riconosci quasi più, debba essere retrodatata e che nella metà degli anni Trenta esploda, sì, una miccia, ma una miccia a filo lungo cui già da tempo era stato dato fuoco (il lettore, poi, vedrà dove come e quando s’era iniziata la lenta combustione).

E c’è ancora un altro passo che è mio e che appartiene solo a me (per cui se capitombolo so chi ha sgambettato chi). C’è che tutto questo frastaglio di pensieri a rientranze e a sporgenze, io non mi sono limitato a registrarlo freddamente, con impassibilità quasi notarile. Il critico, questo mi pare di saperlo, non è precisamente un notaio e per onorare il suo ufficio deve ben cercare l’ultimo perché delle cose. Forse non sarà l’ultimo, magari sarà il penultimo perché, ma sicuramente il cambio di marcia di Rosselli si spiega (anche se non si giustifica) coi tempi feroci che gli toccarono in sorte di vivere. Voi cercate di mettervi nei suoi panni; cercate di immaginare un trentenne educato in un certo modo, con valori così e così determinati, retaggio di padri venerati più ancora che amati, e poi provatevi a guardarvi dintorno e scoprire che  un po’ dappertutto precisamente quel mondo dei padri si inabissava in un naufragio di fallimento disperato, sotto gli assalti di dittature che sembravano raccogliere tutti i venti della storia nelle loro vele, e che perciò rapivano mille cuori (compresi quelli dei padri che, zitti zitti, pure loro si prendevano d’amore per gli uomini “forti”); immaginate tutto questo e capirete all’istante le brusche torsioni di Rosselli e perché gli umori liberali di lui novizio dovessero cadergli dal cuore con un senso di disgrazia, rovinosamente.

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Intendiamoci: non è che dove prima c’era il pieno, ora si fa il vuoto, il vuoto completo, e che al posto delle affollate acquisizioni di un tempo ora c’è un buco, uno scavo buio che si mangia tutto il suo liberalismo. Questa è la verità, ma non è tutta la verità, la verità vera e intera. La verità intera è che con le esperienze atroci degli anni ’30 si amplificarono le sonorità di una voce che già per tempo s’era ritagliata uno spazio nella sua sensibilità ma che ora, profittando delle cavità che gli si erano aperte dentro, prese a parlargli con parole sempre più timbrate e ricche d’accenti. Non solo qui, ma certo anche qui va cercata la svolta di Rosselli, in questa sua rinnovata e sempre più stentorea “voce di dentro”.

Che era poi la voce di… No, questo ho fatto voto di non dirlo e non lo dirò. Nemmeno sotto tortura. E’ stata una scoperta per me, e non mi spiacerebbe se pian piano, pagina dopo pagina, con un lavoro di lenta mano riuscisse una scoperta pure per il lettore. Debbo però avvertirvi: sto anticipando una sorpresa,  non necessariamente una bella sorpresa; vi metto sull’avviso di una novità che non per forza deve essere una novità gradita. Anzi, resto convinto (e credo di averlo documentato) che le bolle e le screpolature di tante tormentate vicende nascano da proprio da lì, come da una pasta dosata male, e che molti degli errori di Rosselli, che molti dei suoi sbagli trovino appunto nell’abuso di questo nuovo ingrediente il loro primo lievito.  Fermo restando, però, che di sbagli e di errori si tratta (peraltro giudicati con la facile sapienza del giorno dopo, per cui è bene che le critiche, anche le più aspre, dimettano ogni abito superbioso che proprio non si conviene agli eroi o ai sapienti della sesta giornata); di sbagli e di errori, dicevo, si tratta. Mai di inganno. Perché Rosselli è tale carattere che anche quando gli dai torto, anche allora fremi con lui. E ti senti contento di avere un’anima in cui risuona la sua parola buona e generosa.  Mi sarebbe sufficiente ricompensa sapere che almeno un po’ di tale contentezza, io sono riuscito comunque a trasferirla nelle pagine di questo libro.

G.P.

Napoli, aprile 2017

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Gaetano Pecora
E' ordinario di Storia delle dottrine politiche. Insegna nell’Università del Sannio e alla Luiss. Tra i suoi saggi ricordiamo: Uomini della democrazia, con prefazione di N. Bobbio (Esi, 1987, 2007); Il pensiero politico di Hans Kelsen (Laterza, 1995; trad. in Brasile nel 2015); Il liberalismo anomalo di Friedrich August von Hayek (Rubbettino, 2002; trad. inglese nel 2015). Per i tipi della Donzelli, ha pubblicato Socialismo come libertà. La storia lunga di Gaetano Salvemini (2012), vincitore del Premio Giacomo Matteotti; La scuola laica. Gaetano Salvemini contro i clericali (2015); Carlo Rosselli, socialista e liberale. Bilancio critico di un grande italiano (2017). Collabora al Domenicale del «Sole 24 Ore». Dirige l’«Archivio storico del Sannio».