Le radici storiche del socialismo: platonismo e cristianesimo
La nascita del termine socialismo e l’elaborazione di progetti di società che possono essere definiti socialisti, ovviamente nell’accezione che oggi è attribuita al termine, risale alla prima metà dell’Ottocento. Tra coloro che, per primi, hanno coniato e utilizzato il termine è da ricordare Robert Owen che, nelle pagine del London cooperative magazine nel 1826, con il termine socialista indicava i sostenitori delle idee cooperative. In Francia il termine fu introdotto dai sansimoniani. La parola socialismo cominciò ad essere usata nel 1832 dalla pubblicazione Globe e dal 1832 nella Encyclopédie Nouvelle di Leroux e Reynaud. Questa datazione, cronologicamente esatta, tiene conto della nascita lessicale del termine, ma non comprende la natura più intima e ancestrale del fenomeno: la profonda capacità evocativa delle aspettative palingenetiche per la creazione di un Uomo Nuovo e di una società perfettamente ordinata esente dal Male che il socialismo ha suscitato attraverso i secoli. Il socialismo affonda le sue radici profonde nel platonismo e nel cristianesimo. Platone, com’è noto, era convinto che la dinamica del mutamento storico fosse scandita da un progressivo processo di decadenza fatto di degenerazione e di corruzione sociale. Nonostante il suo pessimismo, Platone, nelle pagine della Repubblica, disegna il primo Stato ideale: un sistema sociale in grado di arrestare il processo degenerativo dell’umanità abolendone le cause. La causa prima, fonte di tutti i mali, è indicata da Platone nella libertà individuale: << Sarebbe erroneo – si legge nelle Leggi – anche lasciare a ciascuno la libertà di vivere a suo modo, a casa sua.>>. E’ necessario che i cittadini della Città platonica vivano una esistenza assolutamente disinteressata al perseguimento di vantaggi individuali. Parte quasi insignificante di un Tutto, ogni singolo attore sociale deve contribuire al raggiungimento degli obiettivi collettivi; per questo devono essere allontanati da loro i due fattori che generano atteggiamenti egoistici: la proprietà privata e la famiglia. La Repubblica, coerentemente con tali premesse, prescrive la comunità dei beni e delle donne. Eliminando la proprietà – secondo Platone – si elimineranno l’ambizione e la discordia. La configurazione sociale della Città ideale platonica è costituita da tre classi sociali: la prima include i contadini, gli artigiani ed i mercanti; la seconda è composta dai custodi ( guerrieri); la terza è formata dai reggitori (filosofi). Le classi sono rigidamente ordinate in modo gerarchico, ma all’interno di esse vige l’uguaglianza assoluta dei membri nei confronti dello Stato. L’agire sociale è regolamentato con la massima severità da norme statali: le unioni matrimoniali sono gestite da complessi meccanismi pubblici; i bambini appena nati sono separati dalla madre ed affidati ad asili statali; molti aspetti della vita quotidiana sono svolti in comune. Aboliti i valori di paternità e di maternità scompare anche il concetto d’ereditarietà, perciò non vi sono motivazioni all’accumulazione di ricchezze. Con simili costumi, né le sollecitazioni all’acquisizione dalla proprietà, né le seduzioni femminili porteranno il disordine nella Città. Platone ritiene che sia possibile arrestare la fatale tendenza storica degenerativa mediante la costruzione di una società governata da un ordine statale che non si corrompa, per questo esso dovrà immune da ogni possibilità di cambiamento. Uno Stato perfetto è quello che trae la sua legittimità da una tradizione legislativa immutabile e che esercita sui governati una capillare azione, la quale sia, ovviamente politica, ma anche etica e pedagogica. Numerosi aspetti della diagnosi e della terapia sociologica platonica verranno ripresi da Marx: impressionanti sono le analogie che si possono riscontrare confrontando le pagine della Repubblica con alcune de L’ ideologia tedesca. << Sia Platone che Marx – sottolinea K.R. Popper nel primo volume de La società aperta e i suoi nemici – sognano la rivoluzione apocalittica che trasfigurerà radicalmente il mondo sociale nella sua interezza >>. L’ideale di una società organica governata da uno Stato etico, formulato da Platone nella Repubblica, attraversa, con alterne vicende, i secoli per ricomparire – ovviamente modificato nella forma per le diverse specificità storiche, ma notevolmente comparabile non nei suoi aspetti essenziali – nelle pagine dell’agostiniana Città di Dio. Il De civitate Dei, scritto tra il 431 ed il 426, ha finalità apologetiche, con esso Agostino, nella veste di vescovo d’Ippona, si propone di rispondere all’accusa, rivolta dai pagani al cristianesimo, di essere stata questa religione la principale responsabile della rovina dell’Impero romano. Dopo aver criticato i culti idolatrici, che non offrono la felicità terrena né la vita eterna, Agostino riprende l’idea della Provvidenza come Artefice della Storia – esposta nelle Confessioni – e sviluppa una precisa teologia della Storia. Egli sostiene che esistono necessariamente due Città: quella del Bene e quella del Male. Esse sono in lotta quotidiana, ma alla fine della Storia, quando l’individuo saprà rinunciare all’amore di sé fino a spingersi al disprezzo di sé, il Bene sicuramente trionferà sul male. << Due amori – si legge nel XIV libro della Città di Dio – hanno costruito due città: l’amore di sé spinto sino al disprezzo di Dio, la città terrena; l’amore di Dio spinto sino al disprezzo di sé, la città di Dio. L’una si glorifica in sé, l’altra nel Signore. L’Una chiede la gloria agli uomini, l’altra fa consistere la sua gloria più ambita in Dio testimone della sua coscienza. (…). La prima, nei suoi capi, nelle sue vittorie sulle altre nazioni da lei domate, si lascia dominare dalla passione di dominare. La seconda ci presenta dei cittadini uniti nella carità, scambievolmente al servizio gli uni degli altri, governanti protettivi, sudditi obbedienti>>. Le tappe del percorso che conducono dalla Città del Male alla Città del Bene – indicate da Agostino – non si limitano ad indicare esclusivamente un percorso spirituale, ma prevedono precisi comportamenti temporali conferendo, così, sostanza politica a quei principi cristiani senza i quali sarebbe stato impossibile finanche pensare gli elementi costitutivi della dottrina socialista e della Città socialista. L’agostinismo politico prescrive l’organizzazione temporale dello Stato secondo le leggi del Vangelo. Afferma che, fuori dalla teologia della storia, l’uomo non ha di per sé alcuna autorità sugli altri uomini, viceversa l’esercizio dell’autorità diventa legittimo se si procede verso il Bene. La teologia della storia gli consente, altre sì, di fornire una spiegazione anche per quegli eventi che possono apparire inaccettabili ed inesplicabili, infatti, anche quest’ultimi contribuiscono all’avvento ineluttabile della Città del Bene. Agostino alimenta la certezza teleologica secondo la quale il pellegrinaggio esistenziale dell’umanità si concluderà con il raggiungimento di un escatologico totalmente Altro, esente da tutti i mali e da tutte le ingiustizie. La certezza nell’imminente avvento di un totalmente Altro, tratto culturale, questo, assolutamente estraneo alla civiltà greco-romana, è così definitivamente iniettata dal cristianesimo nel corpo sociale dell’Occidente. Le opere di Agostino – dopo che l’editto di Milano, promulgato Da Costantino nel 313, aveva trasformato il cristianesimo da religione di contestazione dell’esistente a religione di legittimazione del potere dell’Impero – sanciscono l’irreversibile sconfitta del paganesimo. Certo, Agostino separa il Regno dell’uomo dal Regno di Dio. Egli colloca quest’ultimo alla fine della Storia e tramuta il Messaggio evangelico da immanente a trascendente. Ma la revisione agostiniana dei sacri Testi non estingue del tutto l’attesa messianica – alimentata dal cristianesimo per tre secoli – dell’imminente parusia (ritorno di Cristo). In molti credenti permane la certezza del ritorno di Cristo in terra per ri-unirsi ai suoi fedeli, per decretare la fine dei Tempi, sancire la selezione finale fra i giusti e gli ingiusti: premiare i primi, punire i secondi. Così l’eresia gnostico-manichea, alla quale aveva aderito in gioventù lo stesso Agostino, e che la Chiesa riteneva di avere rimossa, riemerge con tutta la sua veemenza anti-istituzionale. I gruppi ereticali, guidati da profeti armati – una sorta di monaci guerrieri – sfidano le autorità politiche e religiose, contestano la legittimità del cristianesimo della Chiesa e condannano, in nome del Messaggio originario di Cristo, i soprusi dei potenti e dei ricchi, la cupidigia, la proprietà privata ed ogni forma di disuguaglianza fra gli uomini. A questo mondo corrotto essi contrappongono il loro ideale gnostico rivoluzionario: la certezza di essere in possesso della vera conoscenza, dettata loro da Dio attraverso il Sacrificio del Figlio, per eliminare definitivamente tutte le ingiustizie e per fondare il Regno dell’uguaglianza e della fratellanza universale hic et nunc, qui ed ora, su questa terra. << Così – spiega Luciano Pellicani in uno dei brani più intensi de La società dei Giusti – in nome del rifiuto del rifiuto del vecchio mondo e dell’attesa del Mondo Nuovo, chiliasmo (millenarismo) e gnosticismo si congiungevano e si presentavano come un’unica forza spirituale, che conferiva al propheta che la incarnava tutti i tratti del portatore di salvezza. Come tale, egli era un capo carismatico. Straordinaria era la situazione nella quale operava e straordinaria era altresì la missione che egli sentiva di avere nei confronti del gruppo-paria al quale rivolgeva il suo messaggio di speranza, basato sull’attesa dell’evento escatologico che sarebbe stato, in modo tipico, terribile e liberatorio al tempo stesso: una catastrofe apocalittica dalla quale sarebbe scaturito un Macrocosmo rigenerato e purificato.>>.