Il socialismo marxista, utilizzato spesso e volentieri come sinonimo di comunismo o organicismo marxiano, è sicuramente quello più famoso e più conosciuto; basta pensare che molti stati e forze politiche ancora oggi si definiscono marxisti e annoverano K. Marx tra i propri padri spirituali. Per meglio esporre il pensiero di Marx e del suo inseparabile amico, Engels, è necessario partire dalla concezione materialistica della storia, fulcro di tutta la filosofia dei due autori tedeschi. La concezione materialistica della storia è la filosofia della storia ideata nell’Ideologia tedesca (1846), destinata a rimanere il costante background di tutte le opere della maturità. Marx ed Engels si propongono di spiegare i pensieri degli uomini prendendo le mosse dalle loro concrete condizioni di esistenza, nella convinzione che «non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza»[1] o come si legge ne Il Capitale «l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello dell’uomo»[2]. Insomma, il loro scopo è quello, di capovolgere la dialettica hegeliana. «Esattamente all’opposto – si legge nell’Ideologia tedesca – di quanto accade nella filosofia tedesca che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita (…). Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza»[3]. Tale rivoluzione copernicana, tale cambiamento di vedute, sposta verso l’homo faber l’attenzione degli studi dei due filosofi tedeschi. L’uomo diventa, dunque, l’«insieme dei suoi rapporti sociali», cioè «il complesso – spiega Luciano Pellicani in Introduzione a Marx – delle concrete relazioni che egli ha con la natura e con gli altri uomini, e che queste relazioni sono esteriori, pratiche, oggettive e non si possono ridurre, come pretendeva l’idealismo, alla sfera dell’interiorità spirituale»[4]. «Nella produzione sociale della loro esistenza – scrive Marx in Per la critica dell’economia politica – gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale». Insomma, secondo la concezione materialistica della storia, bisogna guardare agli uomini e al «processo reale della loro vita», ossia il lavoro, inteso come Praxis, attività pratico sensibile, tralasciando completamente le manifestazione spirituali o intellettuali, in quanto, quest’ultime appartengono alla sovrastruttura: «religione, famiglia, Stato, diritto, morale, scienza, arte ecc. sono soltanto particolari modi della produzione e cadono sotto la sua legge generale»[5]. Il lavoro, quindi, diventa Praxis; «è attività – spiega sempre Pellicani – creatrice e auto creatrice. Tramite il lavoro, l’uomo trasforma la natura, modifica il suo mondo ambiente, crea la società: in altre parole, umanizza la realtà esterna»[6]. Ma il lavoro, che di per sé è antropogenico, in un sistema economico capitalistico, secondo la dottrina marxiana, è alienante e mortificante per l’uomo. «Tutta la storia umana, secondo Marx, testimonia dell’alienazione dell’uomo, del suo divenire, estraneo a se stesso e agli oggetti da lui creati. L’origine del processo di estraneazione Marx la individua nella divisione del lavoro»[7]. Infatti, «la divisione del lavoro è l’espressione economica della socialità del lavoro nell’alienazione»[8]. «L’operaio – scrive Marx nei Manoscritti economici-filosofici del 1844 – sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come un oggetto estraneo. Quanto più l’operaio lavora, tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo che egli si crea di fronte e tanto più povero diventa se stesso e il suo mondo interiore (…). Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo (…). Il risultato è che l’uomo si sente libero ormai nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere, nel generare; tutt’al più nell’avere una casa, nella sua cura corporale ecc. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale»[9]. Se l’operaio, prodotto dalla divisione del lavoro e dall’economia capitalistica, che rappresenta la struttura, è alienato anche le manifestazioni sovrastrutturali, la filosofia, l’arte, il diritto, la religione, lo Stato, sono altrettante forme di alienazione. Pellicani afferma che «tutte le manifestazione spirituali dell’uomo – da lui (cioè Marx) concepite come semplici “riflessi fantastici”delle condizioni materiali di vita e del lavoro estraniato – sono affette dal medesimo vizio: sono alienate ed alienanti. L’alienazione, secondo Marx, non investe dunque soltanto il lavoro, bensì anche e soprattutto, i prodotti spirituali e le attività civili della società. L’alienazione è la “legge dominante” della società divisa in classi e ad essa non può sfuggire nessuna espressione dell’attività umana»[10]. Secondo il materialismo storico, la religione, ad esempio, diventa la proiezione fantastica dei desideri e dei bisogni umani. «La miseria religiosa – sostiene il filosofo di Treviri, in una delle sue pagine più famose – è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo»[11]. Ma non solo la religione, anche lo Stato cade sotto i colpi della scure marxiana, la critica colpisce anche le istituzioni statali e i pilastri del contrattualismo, del costituzionalismo e dell’individualismo. Seguendo le direttive del materialismo storico, infatti, «non è lo Stato che determina l’organizzazione sociale, bensì è l’organizzazione sociale che determina lo Stato»[12]. Per questi motivi, Marx afferma che la società borghese è «il principio realizzato dell’individualismo»[13], l’esistenza individuale è il suo «scopo ultimo» e la sua divisa è «la libertà dell’uomo egoista», «l’egoismo è l’unico principio della società civile (borghese)»[14]. «L’uomo – si legge in La questione ebraica – conduce non solo nel pensiero, nella coscienza, ma nella realtà, nella vita, una duplice esistenza, una celeste e una terrena, l’esistenza nella comunità politica in cui egli si ritiene un ente comunitario e l’esistenza nella società civile, nella quale opera come uomo privato, il quale intende gli altri uomini come strumenti»[15]. Tale tipo di impostazione determina una «concezione negativa» dello Stato. Infatti, come sottolinea lo stesso Bobbio, in Teoria e forme di governo, «in nessun luogo della sua immensa opera appare un qualsiasi interesse di Marx per il problema, che pur abbiamo visto sinora sempre presente negli scrittori politici da Platone a Hegel, per la tipologia delle forme di governo»[16]. Per Marx ed Engels, in sostanza, lo Stato è la legittimazione e la perpetuazione delle sofferenze e delle disuguaglianze che si riscontrano nella società civile. La concezione negativa dello Stato, da parte dei due autori tedeschi, deriva da una visione conflittuale della società. Il Manifesto, a tal proposito, apre con queste parole: «la storia di ogni società sinora esistita è la storia di lotte di classe»[17]. Infatti, nell’analisi economica-sociologica marxiana sviluppata prima nei Grundrisse e ne Il Capitale, la categoria di classe (Klasse) assume il ruolo di protagonista principale del processo storico di emancipazione dell’umanità. Eppure in tutta l’opera marxiana non si può riscontrare una definizione precisa di classe, tanto chei diversi studiosi di Marx hanno dovuto sottoporre a un’indagine ermeneutica gli scritti del pensatore tedesco per formulare una definizione definitivamente condivisibile di classe. Ci sembra a tal proposito di poter condividere con Diego Fusaro che con il termine ‹‹classe›› Marx intende, in termini generalissimi, ‹‹un gruppo di individui che sono portatori di interessi socio-economici comuni e che sono potenzialmente in grado di acquisire coscienza di sé come membri di una classe››[18]. La classe nell’interpretazione marxiana della storia ha un compito molto importante, perché è il prodotto delle forze di produzione e dei rapporti di produzione in un dato momento storico, per questo motivo noi non riscontriamo nel Manifesto, che ‹‹pur essendo un documento di battaglia politica, e pur essendo scritto con grande forza letteraria e trascinante eloquenza ai fini, appunto, della lotta politica contro la borghesia››, una pronuncia di ‹‹condanna moralistica o sentimentale di questa classe, bensì ne celebra ed esalta, con toni ditirambici, la funzione storica››[19]. ‹‹La borghesia – afferma Marx – ha giocato nella storia un ruolo altamente rivoluzionario››[20], essa ‹‹ha realizzato ben altre meraviglie che le piramidi egizie, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; ha compiuto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le Crociate››[21]. Ancora, prosegue Marx, ‹‹col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni rese infinitamente più agevoli, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi e con cui costringe alla capitolazione la più ostinata xenofobia dei barbari. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza››[22]. I capitalisti creano lo Stato di diritto per vedersi garantire la propria posizione economica «Lo Stato moderno – si legge nell’Ideologia – non è altro che la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità, tanto verso l’esterno che verso l’interno, al fine di garantire la loro proprietà e i loro interessi»[23] e il diritto è la «volontà della classe dominante innalzata a legge», e «il contenuto della vostra volontà è determinato dalle condizioni materiali della vita della vostra classe»[24]. Insomma, esso è «il comitato di affari di tutta quanta la classe borghese»[25] cioè, «il potere organizzato di una classe per opprimere un’altra»[26]. La conclusione del ragionamento marxiano, dunque, sembra semplice ed inequivocabile: lo Stato, qualunque sia la sua forma particolare, è sempre, e non può non essere, dittatura di classe, strumento di dominio e di sfruttamento[27]. In tal modo Marx ritiene di aver svelato l’«arcano» mistero che si cela dietro la funzione dello Stato. Non diverse sono le affermazioni fatte da Engels nei confronti delle istituzioni politiche, le quali sono la «vivente assurdità»[28] della società di mercato. Esse sono «una trama di menzogne aperte ed occulte, di ipocrisie e di autoinganno»[29]. «Tutta la costituzione inglese e tutta la pubblica opinione costituzionale non sono che una grande menzogna, che viene confermata ed occultata»[30]. Il Parlamento, poi, è solo «un ciarlatorio nazionale», in cui si svolge «una tediosa battaglia di parole»[31] e «la libertà politica è una finta libertà, la peggiore schiavitù possibile, parvenza di libertà, dunque realtà dell’asservimento»[32]. Infine, «la democrazia è una contraddizione intrinseca, un falso, una semplice ipocrisia»[33]. Anche Marx afferma che «il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento dell’uomo dall’uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a se stesso»[34]. «Il diritto di godere arbitrariamente – prosegue –, senza riguardo agli altri uomini, indipendentemente dalla società, della propria sostanza e di disporre di essa, il diritto dell’egoismo»[35]. In breve i «diritti dell’uomo» sarebbero solo diritti «borghesi», e configurerebbero un tipo di convivenza nella quale la società è soltanto «una cornice esterna agli individui», una «limitazione della loro indipendenza originaria»[36]. Anche l’istituto della rappresentanza politica, pilastro della società liberale, è oggetto della critica marxiana. «Essere rappresentato è in generale qualcosa di meschino; solo ciò che è materiale, senza spiritualità, eteronomo, insicuro, ha bisogno di rappresentanza: ma nessun elemento dello Stato può essere materiale, senza spiritualità, eteronomo, insicuro»[37]. «Nella democrazia – si legge nella Kritick – nessuno dei suoi elementi acquista un significato diverso da quello che gli spetta. Ciascuno è realmente solo un momento dell’intero demos». «La democrazia è contenuto e forma»; «nella democrazia il principio formale è al tempo stesso il principio materiale. Essa è dunque primieramente la vera unità dell’universale e del particolare»[38]. Uno dei maggiori critici alla visione democratica, illustrata dai padri del materialismo storico, è Hans Kelsen, giurista tedesco del XX secolo, il quale dialoga volentieri con molti esponenti della socialdemocrazia tedesca, come Max Adler. «Se è vero – scrive Kelsen – ciò che la concezione materialistica della storia dice, cioè che lo sviluppo sociale conduce inevitabilmente ad una condizione in cui si contrappongono solo due gruppi come classe con interessi conflittuali […] allora è la democrazia l’espressione adeguata della effettiva situazione di forza […]. Se ciò che conta, come proprio la critica marxista della cosiddetta democrazia borghese sottolinea energicamente, sono gli effettivi rapporti sociali di forza, allora è la forma politica democratica, con il suo principio di maggioranza e di minoranza, che costituisce un‘essenziale distinzione binaria, l’espressione vera della società odierna, essenzialmente divisa in due classi»[39]. E aggiunge: «se esiste una forma che offra la possibilità di dirimere questa formidabile antitesi […] non attraverso una rivoluzione sanguinosa, ma pacificamente e per gradi, è proprio la forma della democrazia parlamentare»[40]. Ma il socialismo, che si ispira ai dettami della filosofia marxiana, non intende assolutamente scendere a compromessi con le istituzioni parlamentare, esso desidera la palingenetica fine del Mondo vecchio per costruirne uno nuovo. È questo il filo rosso che collega Marx a Platone, l’organicismo marxiano allo gnosticismo manicheo e alla tradizione millenaristica. «Il vecchio mondo – scrive Marx a Ruge nel maggio del 1843 – appartiene ai filistei. Ma non dobbiamo trattarlo come uno spauracchio davanti al quale si fugge impauriti. Dobbiamo invece guardarlo diritto negli occhi. Vale la pena di studiare questo signore del mondo. Indubbiamente, è signore del mondo solo in quanto lo popola con la sua società, come vermi un cadavere. Quindi la società di questi signori necessita unicamente di un insieme di schiavi, e i proprietari di schiavi non hanno bisogno di essere liberi». «Per prima cosa – prosegue – si dovrebbe ridestare nel petto di questi individui la consapevolezza dell’uomo, della libertà. Soltanto questo sentimento, comparso nel mondo coi Greci e sublimato dal cristianesimo nell’aere azzurro del cielo, può nuovamente generare dalla società una comunità di uomini con il loro fine più alto: uno Stato democratico». «Un mondo di filistei – conclude – è un mondo politico di animali, e se ne dovessimo riconoscere l’esistenza, non rimarrebbe che appellarsi allo status quo. Generato e plasmato da secoli di barbarie, esso si presenta ora come un sistema coerente il cui principio è il mondo disumanizzato»[41]. Di fronte al borghese filisteo, secondo la dottrina marxiana, abbiamo l’intellettuale radicale, che possiede come unica arma la critica. Ma la critica da sola è condannata all’impotenza, quindi diventa necessario trovare una forza umana, una massa d’urto, che, combinata con le idee critiche dell’intellettuale radicale, sia in grado di sovvertire l’ordine di cose esistente. Tale forza umana viene individuata nel proletariato. «Dov’è dunque – si chiede – la possibilità positiva di un’emancipazione tedesca?». «Risposta – si legge nella Kritik –: nella formazione di una classe gravata da catene radicali; di una classe della società borghese, che in realtà non è una classe della società borghese; di un ceto che coincide col decomporsi di tutti i ceti; di una sfera sociale che possiede carattere universale per aver subito sofferenze universali e non pretende alcun diritto particolare, perché nessuna ingiustizia è stata perpetrata contro di essa; di una sfera che non può più vantare un titolo storico, ma solo il titolo umano, e che non si trova in contrasto unilaterale con le conseguenze, ma in contrasto universale con le premesse dello Stato tedesco; di una sfera, infine, che non si può emancipare senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società, emancipandole insieme tutte quante, e che, in una parola, rappresenta la totale perdita dell’uomo. Questa decomposizione della società, identificata con un ceto particolare, è il proletariato»[42]. Tuttavia, il proletariato per emancipare se stesso e con se stesso l’intera umanità deve avere chiara la visione della sua missione storica. Questa chiara visione gli può venire solo dalla filosofia critica. «Senza la filosofia egli sarebbe stato simile a una forza cieca, così come la filosofia senza una forza materiale si sarebbe votata all’impotenza»[43]. Perciò, Marx scrive: «come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, così il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali» e «l’emancipazione del tedesco è l’emancipazione dell’uomo. Il cervello di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore è il proletariato. La filosofia non può realizzarsi senza la soppressione del proletariato, il proletariato non può sopprimersi senza la realizzazione della filosofia»[44]. La dottrina politica marxiana concepisce la rivoluzione violenta come l’unico mezzo efficace, per far sì che la classe operaia si auto-emancipi e soprattutto consiste nell’affermare che la creazione della nuova società dovrà essere affidata a un’energica dittatura di classe. In Lotte di classe in Francia, troviamo menzionata per la prima volta l’espressione ‹‹dittatura del proletariato››. ‹‹Il comunismo è la dichiarazione della rivoluzione in permanenza, la dittatura di classe del proletariato, quale punto di passaggio necessario per l’abolizione delle differenze di classe in generale, per l’abolizione di tutti i rapporti di produzione su cui esse riposano, per l’abolizione di tutte le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il sovvertimento di tutte le idee che germogliano da questi rapporti sociali››[45]. In una lettera a Weydeyer, Marx dichiara ‹‹che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato››. La dittatura del proletariato si frappone ‹‹fra la società capitalistica e la società comunista››, dove, appunto, ‹‹v’è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra››. ‹‹Ad esso corrisponde anche un periodo transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato››[46]. Se il metodo che adotta il socialismo marxiano è quello della lotta di classe violenta, il modello di società che intende realizzare è fin troppo chiaro. Il progetto politico di cui il comunismo, in qualità di dottrina si fa depositario, afferma la necessità storica di un sistema sociale nel quale l’organizzazione statale realizzi la socializzazione, la collettivizzazione totale dei mezzi di produzione e di scambio, e la distribuzione del prodotto sociale in base ai bisogni della collettività, indipendentemente dal lavoro prestato dai singoli. La teoria marxiana e la pratica comunista con Lenin, Stalin, Mao e gli altri, prescrive che lo Stato debba inibire del tutto l’esercizio delle libertà individuali, la formazione della proprietà privata, lo svolgimento della concorrenza economica, la competizione fra le diverse formazioni politiche. «Il comunismo –sostiene Marx – come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoesternazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino a oggi». «Questo comunismo – prosegue – si identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. È la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione»[47]. L’utopia comunista prevede che i limiti ed i divieti imposti saranno funzionali, in virtù di una capillare azione etica e politica esercitata dallo Stato, al perseguimento dell’eguaglianza fra i governanti e alla consequenziale soppressione delle classi sociali. Infine, la gnosi marxista «avendo la missione storica – spiega Pellicani – di ricreare il regno di Dio in terra, non può tollerare che esistano tradizioni, istituzioni, risorse, interessi, posti al di fuori della sua giurisdizione normativa. Tutto deve essere sottomesso al suo potere catartico per essere riplasmato e riportato a nuova vita. La sua politica, pertanto è totalitaria nel senso più forte e completo»[48]. Ma ancora più chiare sono le parole che un giovane Marx scrive in un romanzo, Scorpione e Felice, dove si confessa a se stesso, presentando le sue angosce, le sue paure e perché no, anche la sua megalomania. «Mi vengono le vertigini, se apparisse un Mefistofele sarei Faust, perché è chiaro che tutti, tutti, siamo Faust, poiché non sappiamo quale parte è la destra e quale la sinistra, e perciò la vostra vita è un circolo; corriamo in giro, cerchiamo da tutte le parti, finché cadiamo nell’arena e il gladiatore, precisamente la vita, ci uccide: dobbiamo avere un nuovo Salvatore»[49]. Vito Varricchio
[1] K. Marx – F. Engels, Ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 2000, p. 13. [2] K. Marx, Il Capitale, I, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 44. [3] K. Marx – F. Engels, Ideologia tedesca, cit. p. 13 [4] L. Pellicani, Introduzione a Marx, Capelli Editore, 1969, p. 10. [5]K. Marx, Per la critica dell’economia politica. Grundrisse, p. 5-6. [6] L. Pellicani, Introduzione a Marx, cit., p. 10. [7] Ivi, p. 13. [8] K. Marx, Manoscritti economici-filosofici del 184, Einaudi, Torino 1968. p. 280. [9] Ivi, p. 57. [10] L. Pellicani, Introduzione a Marx, cit. p. 18. [11] K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 50. [12] Ivi, p. 17. [13] K. Marx, Sulla questione ebraica, Bompiani, Milano 2007, p. 31. [14] Ivi, p. 19. [15] Ivi, 111. [16] N. Bobbio, Teorie e forme di governo nella storia del pensiero politico,G. Giappichelli Editore, Torino 1976, p. [17] K. Marx-F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 5. [18] D. Fusaro, Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario, Edizione Bompiani, Milano 2009, p. 157-158 [19] G. Bedeschi, Introduzione a Marx, Editori Laterza, Bari 2008, p. 95 [20] K. Marx-F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 8. [21] Ivi, p. 8-9. [22] Ivi, p. 11. [23] K. Marx-F. Engels, Ideologia tedesca, cit., p. 60. [24] K. Marx-F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 31. [25] Ivi, p. [26] K. Marx-F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 37. [27] ‹‹L’essenza della dottrina dello Stato di Marx è stata fatta propria solo da chi ha compreso che la dittatura di una classe è necessaria non solo per ogni società classista in generale, non solo per il proletariato dopo aver rovesciato la borghesia, ma anche per un intero periodo storico che separa il capitalismo dalla società senza classi, dal comunismo. Le forme degli Stati borghesi sono straordinariamente varie, ma la loro essenza è una sola: tutti questi stati sono in un modo o nell’altro, in ultima istanza, necessariamente una dittatura della borghesia. La transizione dal capitalismo al comunismo, indubbiamente, non può non dare un gran numero e una grande varietà di forme politiche ma la loro essenza sarà inevitabilmente una sola: la dittatura del proletariato›› (Lenin, in N. Bobbio, La teoria delle forme di governo, cit., p. 192). [28] F. Engels, Lineamenti di una critica dell’economia politica, III, p. 54, in L. Pellicani, Miseria del marxismo, cit., p. 42. [29] F. Engels, La situazione dell’Inghilterra, III, p. 553, in L. Pellicani, Miseria del marxismo, cit., p. 42. [30] Ivi, p. 473. [31] F. Engels, Lettera da Londra, in L. Pellicani, Miseria del marxismo, cit., p. 42. [32] F. Engels, Progressi della riforma sociale nel continente, in L. Pellicani, Miseria del marxismo, cit., p. 42. [33] Ibidem [34] K. Marx, La questione ebraica e altri scritti giovanili, cit., p. 72. [35] Ibidem. [36] Ivi, p. 73. [37] Cfr. I marxisti e lo Stato, antologia di testi a cura di D. Zolo, Milano 1977, p. 7. [38] K. Marx, Opere filosofiche giovanili, cit., p. 159. [39] H. Kelsen, Sociologia della democrazia, ESI, Napoli 1991, p. 40. [40] H. Kelsen, Il problema del parlamentarismo, ora in La democrazia, Il Mulino, Sesta Edizione, Bologna 1987, p. 166. [41] K. Marx, Lettera a Ruge del maggio 1843, in L. Pellicani, Introduzione a Marx, cit., p. 162. [42] Ivi, p. 410-411. [43] L. Pellicani, Introduzione a Marx, cit., p. 164. [44] K. Marx, Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel, cit., p. 410-412. [45] K. Marx, Le lotte di classe in Francia, Roma 1948, p. 229. [46] K. Marx, Critica del Programma di Gotha, Mosca, 1947, p. 37. [47] Ivi, p.88 [48] L. Pellicani, La società dei giusti. Parabola storica dello gnosticismo rivoluzionario, ETASLIBRI 1995, p. [49]