La metamorfosi del sacro: escatologia cristiana e genesi della dottrina socialista
Dall’Alto Medioevo al Basso Medioevo, dopo che l’ingresso dell’anno Mille è trascorso senza il verificarsi della parusia e di eventi apocalittici, progressivamente la << Città Secolare>> sottrae territori alla << Città sacra>>. I tratti costitutivi del processo di modernizzazione – il razionalismo, l’individualismo, l’azione elettiva, il contratto – sono strutturalmente corrispondenti agli obiettivi e alle aspettative di quella che può essere indicata come la nascente borghesia protocapitalistica. A partire dal XII secolo la lingua volgare sostituisce gradualmente il latino. Con la nuova lingua comincia a modificarsi la stessa percezione della realtà: la visione del mondo non risulta essere esclusivamente religiosa. Muta la concezione del tempo: esso non è più vissuto come uno strumento di salvezza, ma come una << occasione di guadagno>>, come ha rilevato nei suoi scritti Le Goff. Da sacro a profano il tempo diventa una merce: <<La misura del tempo divenne un servirsi del tempo, un contare il tempo, un regolare il tempo. Quando ciò avvenne – avverte Lewis Mumford in Tecnica e cultura – l’eternità smise di essere la misura e lo scopo delle azioni umane>>. Davanti ad un’eternità che non rappresenta più la misura e l’unica meta dell’azione umana, risulta meno credibile la credenza escatologica che indica un mondo teologicamente e teleologicamente orientato. L’uomo rinascimentale si dichiara artefice della propria vita e responsabile del proprio agire storico. La storia si desacralizza: fuoriesce dal solco provvidenzialistico tracciato dal cristianesimo. Il crescente processo di secolarizzazione di tutti gli elementi del sistema sociale scalza la visione teocentrica della realtà per sostituirla con la visione antropocentrica. Questo processo provoca la rottura traumatica di quei legami profondi che per secoli avevano unito gli individui alle loro comunità ancestrali. L’esistenza risulta subordinata alle leggi amorali del mercato. Alienazione e disorientamento anomico rappresentano i costi psicologici che l’attore sociale paga per l’avanzata della Modernità secolarizzante. Questa transizione epocale è descritta in maniera efficace da Erich Fromm:<< Il sistema sociale era crollato e con esso la stabilità e la relativa sicurezza che aveva offerto all’individuo – si legge in Fuga dalla libertà – venivano meno quei vincoli che solevano dargli sicurezza e un sentimento di appartenenza. La vita non veniva più vissuta in un modo chiuso ruotante attorno all’uomo; il mondo era diventato illimitato e al tempo stesso minaccioso. Perdendo il suo posto fisso in un mondo chiuso, l’uomo perdeva anche la risposta sul significato della vita; la conseguenza era che gli cominciava a sorgere il dubbio su sé stesso e sullo scopo della vita. Era minacciato da possenti forze impersonali il capitale e il mercato. (…). Il Paradiso era perduto per sempre, l’individuo era restato solo ad affrontare il mondo: un estraneo gettato in un mondo illimitato e minaccioso.>>. E, come se non bastasse, un ulteriore fenomeno – perverso ed inquietante — turba la coscienza dei credenti: la Chiesa si stava trasformando in un enorme mercato dove anche la salvezza dell’anima è ridotta a merce e, come tale, offerta ai fedeli con la compravendita delle indulgenze. Mammona profanava anche Il Tempio del Signore. In questo contesto storico il protestantesimo costituisce la risposta alle esigenze psicologiche e morali di quella massa di attori sociali, sradicati dalle loro antiche certezze. La Riforma offre le risposte alle domande di appartenenza, d’identità e sul senso della vita espresse dagli individui strappati all’ancestrale ordine per effetto della rivoluzione capitalistica e del processo di modernizzazione. La risposta consiste nella ricomposizione della cristianità in una sorta di comunità evangelica. Il luteranesimo, opponendosi al processo di corruzione che aveva contaminato le gerarchie ecclesiastiche rappresenta, tra l’altro, il disperato tentativo di evitare che lo spirito commerciale conquistasse definitivamente la Chiesa. Il movimento protestante esclude ogni tipo di compromesso fra il cristianesimo e la civiltà moderna poiché ritiene che il capitalismo sia opera del diavolo. Le espressioni di Lutero in proposito, sono inequivocabili: << E il modo del mondo di non pensare ad altro che al denaro – egli afferma – gli uomini vi si attaccano anima e corpo. Dio e il nostro prossimo sono disprezzati e la gente serve Mammona. Verranno tempi orribili, ancora peggiori di quelli che toccarono a Sodoma e Gomorra (…) sulla terra non c’è peggior nemico della comunità, del mercante e dell’usuraio, perché egli vuole diventare Dio di tutti gli uomini (…) in verità il commercio del denaro è un segno e un simbolo del fatto che il mondo è venduto in schiavitù al Diavolo da atroci peccati.>>. La Riforma intende, quindi, restaurare il primato del sacro sul profano. Porsi alla guida della Cristianità. Sostituirsi alla corrotta Chiesa di Roma che aveva tradito il Messaggio originale. Restaurare, secondo l’ortodossia delle Sacre Scritture, il primato della fede su quella che Lutero definisce <<la stolta ragione>>. Sulle orme di Lutero, l’ala estremistica del protestantesimo, guidata da Thomas Muntzer, <<esigeva – ricorda compiaciuto Engels nello scritto La guerra dei contadini, rivendicando una continuità ideologica del marxismo col protestantesimo – l’immediata instaurazione sulla terra del Regno di Dio, del Regno di Dio delle profezie millenaristiche, (…) in cui non ci sarebbero state né differenze sociali, né proprietà privata, né autorità statale>>. I propositi di Muntzer e dei suoi seguaci si materializzano nell’esperimento della città di Muhlhausen, qui, nel 1525, è fondata una comunità organizzata secondo i principi evangelici originari di assoluta uguaglianza e fratellanza e non esiste alcuna forma di proprietà privata. Muntzer si propone di estendere l’esperimento comunitario con la spada, se necessario, all’intera Germania. L’esperimento dura pochi mesi, la repressione sarà durissima. Nonostante le sconfitte subite dai movimenti ereticali, la dottrina escatologica sopravviverà nei secoli ed assumerà nuove connotazioni per contrastare i processi simbiotici di secolarizzazione e di modernizzazione continuamente alimentati da quella che Marx definirà: <<la rivoluzione permanente capitalistica>>. Alla fine della prima metà del Seicento col puritanesimo, lo gnosticismo rivoluzionario irrompe di nuovo sulla scena della storia con <<una sconvolgente novità: la politica rivoluzionaria – spiega ancora Pellicani – come realizzazione della volontà di Dio. (…). Per secoli la politica era stata concepita come arte cibernetica (Platone) oppure come tecnica per realizzare l’accumulazione del potere (Machiavelli). Ma a partire dalla rivoluzione culturale puritana essa fu intesa come prassi soteriologia attraversata da parte a parte dalla tensione escatologica verso il Regno di Dio in terra, quindi come attività missionaria metodicamente rivolta a sconvolgere il mondo per purificarlo>>. La tensione escatologica, dopo il fallimento del rivoluzionarismo puritano, si immerge come un fiume carsico nelle viscere della storia per poi riemergere 150 dopo con le sembianze dello gnosticismo rivoluzionario giacobino. L’esperimento giacobino rappresenta il momento cruciale per il rapporto fra lo gnosticismo cristiano e la genesi della dottrina socialista. La Rivoluzione giacobina rappresenta, scrive Carlyle ne La Rivoluzione francese, << lo sforzo supremo, dopo diciotto secoli di preparazione, per realizzare la Religione Cristiana>> secondo i principi formulati dal << Quinto e nuovo Evangelista, Jean-Jacques Rousseau, che invitava ciascuno ad emendare l’esistenza perversa del mondo intero>>. La metamorfosi del Messaggio evangelico è, ormai, compiuta: rimossi gli aspetti teologici e metafisici esso assume i tratti teleologici e terreni, ma resta inalterata la tensione escatologica e palingenetica per la distruzione del mondo corrotto e l’edificazione di un Mondo Nuovo. << Noi – proclama Robespierre il 5 febbraio 1794 –vogliamo adempiere ai voti della Natura, compiere i destini dell’umanità, mantenere le promesse della filosofia, assolvere la Provvidenza dal lungo regno del crimine e della tirannia>>. La società perfetta è fondata sull’uguaglianza, la fratellanza e la libertà per i credenti, ma essa prevede lo spietato annientamento dei non-credenti attraverso la pratica del terrore. <<La rivoluzione è la guerra della libertà contro i suoi nemici – spiega ancora Robespierre alla Convenzione il 25 dicembre 1793 – Il governo rivoluzionario ha bisogno di una attività straordinaria proprio perché si trova in uno stato di guerra. Se la forza del Governo popolare in tempo di pace è la Virtù, la forza del Governo popolare in tempo di rivoluzione è a un tempo stesso la Virtù e il Terrore. La Virtù, senza la quale il Terrore è funesto; il Terrore, senza il quale la Virtù è impotente. Il Terrore non è altro che la giustizia pronta, severa e inflessibile. Esso è dunque una emanazione della Virtù. (…). Il Governo della rivoluzione è il dispotismo della libertà contro la tirannia>>. Il movimento giacobino diventerà il modello al quale si ispireranno tutti i movimenti rivoluzionari genericamente ostili alla modernità, al processo di secolarizzazione ed alla società ad economia capitalistica. Il passo decisivo verso la trasformazione dell’esperimento giacobino nel rivoluzionarismo socialista è compiuto da Francois Babeuf. Questi teorizza, senza rinnegare la matrice gnostica della sua ideologia, una rivoluzione ancora più radicale che distrugga, irreversibilmente, alla radice, tutte le istituzioni funzionali allo sviluppo della società capitalistica ed instauri un nuovo modello sociale governato dalla << la religione della pura eguaglianza.>>. Babeuf in una serie di articoli – redatti per il foglio Il Tribuno del popolo e pubblicati in piena effervescenza rivoluzionaria fino al 1797, anno in cui sarà giustiziato per aver organizzato << la congiura per l’uguaglianza>> — traccia il modello di società socialista da realizzare ed il metodo per perseguire un tale scopo. Metodo e modello che, come vedremo, ispireranno le tesi marxiane. Col movimento babuvista cominciano a prendere forma sistematica quegli elementi teorici che costituiranno, negli anni successivi, il nucleo irrinunciabile della dottrina socialista nelle sue diverse formulazioni. L’eguaglianza è il valore prescelto quale cardine sul quale fondare la nuova società. << Vogliamo l’eguaglianza o la morte – si legge nel Manifesto degli Eguali di Sylvain Maréchal – ecco quello che ci occorre. E l’avremo questa eguaglianza reale, non importa a quale prezzo. Guai a chi volesse far resistenza a un voto così deciso! La Rivoluzione francese è soltanto un prodromo di un’altra rivoluzione, molto più vasta, molto più solenne, e che sarà l’ultima. (…). La santa impresa che organizziamo non ha altro scopo che porre termine ai dissidi civili e alla miseria pubblica>>. L’eliminazione della proprietà privata è indicata da Babeuf, che trae ispirazione dalle opere di Rousseau e di Morelly, quale fattore primario per determinare la mutazione della natura umana dalla predisposizione al male verso la disponibilità al bene. << Togliete di mezzo la proprietà – si legge nel Codice della Natura di Morelly – e voi annullerete per sempre mille accidenti che conducono l’uomo a eccessi di disperazione. Io dico che, libero da questa tirannia, è assolutamente impossibile che l’uomo sia trascinato a delitti, che sia ladro, assassino e conquistatore>>. Gli artefici ai quali la Storia ha affidato il compito di realizzare la società dell’uguaglianza e della fratellanza universale sono indicati da Babeuf in una minoranza di <<virtuosi>> che conoscono la Verità ed il Bene e che si sono <<consacrati alla rivoluzione permanente>>. Anticipando di quasi un secolo il ricorso alla dittatura rivoluzionaria che sarà teorizzato da Marx, Babeuf afferma che la transizione dalla società corrotta a quella finalmente purificata dovrà essere realizzata dallo Stato guidato dalla minoranza degli eletti, questi costituiranno <<un’autorità straordinaria e necessaria attraverso la quale una nazione può prendere possesso della propria libertà, malgrado la corruzione che consegue dalla sua antica schiavitù e i tranelli e le ostilità dei suoi nemici interni ed esterni coalizzati contro di lei>>. Il babuvismo segna la definitiva metamorfosi della tensione escatologica religiosa medievale nel paradigma laico delle moderne rivoluzioni a carattere socialista. Utopismo e socialismo In questa sintetica ricostruzione del processo genetico della dottrina e del movimento socialista è necessario volgere di nuovo lo sguardo al passato per osservare, sinteticamente, la letteratura utopica. Essa costituisce un elemento fondamentale per la comprensione fenomeno in esame. Letteralmente il termine utopia significa <<un nessun luogo>>, ma può anche essere inteso come <<un buon luogo>> (eutopia): il luogo della giustizia e dell’eguaglianza. L’Utopia – come ha notato Horkheimer – ha due aspetti: <<è la critica di ciò che è e la rappresentazione di ciò che deve essere>>. L’utopia non raffigura esclusivamente la mappa di una società alternativa, ma rappresenta anche una critica feroce, se pur implicita, del potere e dell’ordine sociale dominante. Una critica implicita grazie alla quale, durante le repressioni scatenate dalla recrudescenza delle guerre di religione e/o dall’assolutismo monarchico, possono sopravvivere: la condanna del presente e la speranza del domani. La tensione escatologica, i propositi di palingenesi sociale, la speranza di un mondo trasfigurato, quando non possono essere espressi liberamente, sono mimetizzati e preservati nella letteratura utopica. Gli scritti utopici costituiscono una sorta di “ messaggio nella bottiglia” che gli autori affidano alle generazioni future in attesa di tempi migliori. Il primo testo, l’Utopia di Thomas More, che ha inaugurato e dato nome all’intero genere, è stato redatto nel 1516. Utopia si compone di due parti ben distinte. Il primo libro conduce un’analisi critica spregiudicata del malessere economico e sociale che travaglia l’Inghilterra del primo Cinquecento. Ne emerge il quadro di un paese taglieggiato da una nobiltà avida e prepotente, impoverito da inutili guerre, e percorso da moltitudini di contadini in miseria espulsi dai campi e destinati al vagabondaggio, al furto, e per questi motivi alla pena capitale. La più spietata delle repressioni – settantaduemila impiccati sotto il regno di Enrico VIII – non serve a scoraggiare uomini ridotti alla più nera disperazione: solo un mutamento delle strutture sociali, secondo More, una più equa redistribuzione globale dei mezzi di sussistenza può sanare un malessere tanto profondo. << Tuttavia More – spiega Luigi Firpo nella sua introduzione al testo, in una ripubblicazione del 1979 – non si arrischia a suggerire concrete proposte e preferisce delineare un modello di Stato perfetto, romanzesco eppure minuziosamente realistico, celando le istanze rivoluzionarie sotto l’apparente inconsistenza dell’opera di fantasia. >>. Il secondo libro dell’Utopia è ispirato da un lucido realismo ed animato dalla fede nella bontà naturale dell’uomo e nell’illuminata efficacia della ragione. I cittadini dell’isola felice vivono in vasti nuclei familiari, ospitati in spaziose e salubri città, intenti alle opere dell’artigianato e dell’agricoltura. Tutti lavorano, ma nessuno possiede la proprietà privata dei mezzi di produzione. Non esiste proprietà: i prodotti sono versati in magazzini comuni, senza custodi, dove ciascuno si serve del necessario; i pasti sono consumati in comune in pubblici refettori. Gratuita è l’assistenza agli ammalati. L’organizzazione gerarchica è di tipo patriarcale e l’autorità degli anziani assicura la disciplina. Il governo è elettivo. I cittadini di Utopia sono per natura pacifici, ma pronti sempre alla guerra difensiva e anche all’intervento in territorio straniero, quando si tratti di abbattere tiranni o di soccorrere popoli amici oppressi. Posti su un piano di assoluta eguaglianza, ignari di conflitti sociali, gli uomini realizzano una piena solidarietà alimentata da un’economia collettivistica. Non a caso, la maggior parte delle utopie, con caratteristiche di denuncia delle disuguaglianze sociali e portatrici di un modello di società collettivistico, si colloca fra lo l’inizio del XVI secolo e la fine del XVIII. In questo periodo storico, infatti, si compie, in Europa occidentale, la trasformazione del protocapitalismo rinascimentale in capitalismo industriale. L’analisi critica condotta dagli utopisti, nel Settecento, denuncia gli sconvolgimenti sociali provocati dallo sviluppo dei nuovi rapporti di produzione. Essi non si limitano a descrivere, con grande attenzione, la fenomenologia dei processi storici di cui sono testimoni, ma ne individuano anche i principali soggetti storici e le cause fondamentali. Essi riconoscono che le guerre, l’espropriazione della popolazione rurale, la separazione tra città e campagna, la crescente ineguaglianza nelle ricchezze, la fame e la miseria possono essere ricondotte a un comune denominatore: la ricerca del guadagno. Ma se la « malvagia avarizia di pochi senza coscienza » e il « desiderio di possedere » sono, nello stesso tempo, la radice di tutti i mali e il fondamento dell’ordine sociale esistente, una società più giusta e più felice non potrà essere instaurata (o, meglio, restaurata) se non attraverso una radicale modificazione di tale fondamento. Il modello alternativo proposto dagli utopisti è appunto una società che anticipa i tratti che caratterizzeranno, secoli dopo, il progetto socialista: nella terra di Utopia non esiste proprietà privata, la produzione e la distribuzione dei beni sono gestite dallo Stato, il mercato, ed in certi casi la moneta, sono sconosciuti. Ma non basta: oltre alla formulazione di precise e concrete proposte di giustizia economica e sociale a base solidaristica, l’ utopismo salvaguarda – come ha giustamente rilevato Mannheim in Ideologia e Utopia – la coscienza millenaristica degli anabattisti e la trasfonda nell’idea liberal-umanitaria e nell’ideologia socialista-comunista. La coscienza utopica elabora e propone una percezione del Tempo, dello Spazio e del Tutto che rende il << nessun luogo>> molto simile al Paradiso in terra profetizzato dallo gnosticismo millenaristico. II “nessun luogo” vive immerso in un eterno presente. Mito ed escatologia si fondono nel crogiolo dell’immaginario per disegnare il Totalmente altro. La straziante nostalgia di un mitico Eden – mai irrimediabilmente perduto – e l’incrollabile, quanto disperato, desiderio del suo escatologico avvento fondano la Terra promessa di Utopia. Là dove le dimensioni spazio-temporali dell’essere stato, dell’essere e del divenire sono inscindibilmente racchiuse in un eterno presente. La frattura temporale è essenzialmente frattura storica. L’utopia è un piano umano per interrompere la storia, per saltare fuori dalla storia, per giungere alla fine della storia. Nella città ideale “l’uomo nuovo” potrà finalmente arrestare la “caduta” verso il Male fino a estirparne le radici. Nel suo microuniverso, l’utopiano, muovendo dal presupposto che il Male sia esterno e non inerente alla natura umana, può realizzare quella che Morelly, nel Codice della natura del 1755, indicherà come “la situazione in cui è quasi impossibile che l’uomo sia depravato o cattivo”. Alla frattura spazio-temporale che isola il “nessun luogo” dal resto del mondo corrisponde una frattura morale. L’utopiano ha interrotto volontariamente il suo legame con la storia reale, poiché questa gli appariva come un processo di progressivo decadimento morale dell’umanità. Il passato, stato incivile e primitivo come quello della barbarie, vive solamente nel ricordo di qualche anziano oppure è totalmente rimosso. Le giovani generazioni della Città Nuova vivono una sola dimensione esistenziale: il presente. Tale condizione è spiegata molto bene da Bronislaw Baczko quando nel L’Utopia, spiega << il discorso sulla Città Nuova si rivela come quello che porta in sé la soluzione dell’enigma della storia e che ne illumina tutte le dimensioni : il presente genera il futuro, ma anche il vero significato del passato.>>. La soluzione dell’enigma della storia è la fine della storia. In proposito Raymond Ruyer afferma: <<La città utopica è come un’immagine bloccata , è un porto al quale si arriva e non un viaggio del quale non si vede la meta, (…) l’ideale è là dove più nulla avviene, dove il pendolo del tempo dovrà oscillare per l’ultima volta>>. Al fine di evitare ogni forma di contatto contaminante con l’esterno, Utopia è geograficamente isolata dal resto del mondo. II “nessun luogo” sorge dalle acque, sgorga dal sogno o si cela al mondo tra invalicabili montagne. La Città Ideale non è riportata da carte geografiche. Il visitatore occasionale può accedere ad essa dopo un purificatorio viaggio attraverso le acque del mare, oppure varcando la porta del sogno.«La casa stessa sembrava essere stata costruita su delle fondamenta di questo tipo: costruite da una roccia gigantesca», scrive William Hudsonne L’era di cristallo (1887), volendo descrivere la dimora dove sarà ospitato dal popolo dei cristalliti l’anonimo vittoriano Smith al suo risveglio da un sonno traumatico. E prosegue: «Per entrare in casa, bisognava salire una scalinata a gradini larghi e bassi tagliati nella stessa roccia… L’intera struttura poggiava sul peso di sedici enormi cariatidi, a loro volta sostenute da altrettanti piedistalli rotondi che erano stati scavati nella pietra massiccia». La struttura urbana di quasi tutti gli universi utopici è ordinata secondo una precisa figura geometrica che si ripete dalla costituzione microtopica dei singoli quartieri fino all’assetto complessivo della nazione intera. Così Thomas More disegna l’ambiente architettonico della sua Utopia: «l’isola comprende cinquantaquattro città ampie e magnifiche pressoché eguali di lingua, costumi, istituzioni e leggi, tutte identiche nel tracciato e dovunque simili nell’aspetto, per quanto il sito lo consente». Analogamente ordinato il contesto abitativo tracciato da Johann Andreanella Descrizione della repubblica di Cristianopoli (1619); «quasi tutte le case sono costruite secondo un unico modello ». Unica anche la pianta delle diverse città che Etienne Cabet descrive nel suo Viaggio in Icaria(1840), dove è stata realizzata una perfetta società socialista: «Tutte le città della Icaria… sorgono sulla medesima pianta, diversa solo per quanto riguarda gli edifìci nazionali». Lo spazio nelle immaginarie società utopiche è delimitato da linee simmetriche che lo scompongono secondo un preciso ordine tale da determinare una serie di luoghi perfettamente uguali fra loro, per cui «tutti il luoghi risultano noti dopo averne conosciuto esclusivamente uno». Un motivo di angoscia è eliminato grazie allo spazio noto e immutabile che avvolge e protegge l’attore sociale. La staticità spaziale e l’immutabilità nel tempo – come nota Jean Servier nella Histoire de l’utopie – contribuiscono a rendere gli individui partecipi dell’immortalità. L’isolamento geografico corrisponde, per gli utopiani ad un volontario esilio che li preservi dall’influenza di elementi appartenenti a una cultura “altra”, e che risulterebbero contaminanti. Utopia è una società isolata, la società tutta intera – spiega Servier – forma “come un cerchio magico a protezione dell’individuo da tutti i mali e dalle conseguenze dei suoi peccati”. L’abitante di Utopia è l’uomo che ha realizzato il suo più intimo sogno: essere una particella cosciente di un Tutto Immobile. Essere come la goccia del mare che diviene frammento di nuvola e che, infine, quale stilla di pioggia, torna al mare dopo aver fecondato la terra. Essere un microelemento di un megasistema ciclico ed eterno. Consapevole che il collettivo sopravvive all’individuo, l’Io immola se stesso al leviatanico e rassicurante Noi. Questa totale adesione, volontaria ed irreversibile, contribuisce a rendere gli individui partecipi dell’immortalità.Si ritrovano negli scritti utopici le aspirazioni paradossali dei mistici : “ottenere – come osserva ancora Bronislaw Baczko – la realizzazione dell’individuo e della sua persona tramite il suo annullamento, il suo riassorbimento nell’assoluto. L’utopia concretamente realizzata ha così il compito di soddisfare la sete di assoluto”. Questa tensione verso l’assoluto richiede una forma di uguaglianza, fra i membri della comunità, tale da spingere gli “ingegneri utopici” a teorizzare la distruzione di ogni forma di libertà.Ogni attimo dell’esistenza umana è regolata, nella “Città Ideale”, dagli spietati meccanismi dell’ortodossia. L’idea stessa di mutamento è impensabile nell’universo utopico. Ogni possibile fattore di mutamento sociale è inibito. Strutture, norme e valori sono immodificabili. Qualunque forma di mutamento è letteralmente impensabile. “L’umanità – spiega Baczkoin proposito – non dovrà più smarrirsi, cercare la propria via e fare delle scelte. Ogni mutamento sarà solo perfezionamento e una continuazione di quanto sarà acquisito e non mai un rimetterlo in discussione. (…). Gli schemi di ogni sviluppo ulteriore sono fissati, il progresso non può produrre alcuna controfinalità, non può essere che una conferma di se stesso”. L’universo utopico è esente da imperfezioni : in esso esiste una “coincidenza fra i valori e il dover essere”, si è stabilito una sorta di “essere senza divenire”. Gli utopiani non possono più operare scelte perché ignorano le categorie del “Bene” e del “Male”. In Utopia esiste solo il “Bene” indicato dalla indiscutibile ortodossia. L’utopiano è un uomo che rinuncia a se stesso per aderire completamente, senza riserve, all’ortodossia. In cambio non potrà mai sentirsi uno sconfitto: nella società utopica non esistono né vincitori né vinti in quanto vige il criterio d’eguaglianza secondo il quale ognuno contribuisce per le capacità possedute e riceve in proporzione ai propri bisogni. L’economia utopiana è di tipo collettivistico, sono aboliti: il mercato, la proprietà privata dei mezzi di produzione ed, a volte, anche il denaro. Lo stato detiene la proprietà dei mezzi di produzione. L’economia non è regolata dalla legge della domanda e dell’offerta. La produzione e la distribuzione dei beni è operata dallo Stato. Primo e fondamentale provvedimento statale è l’abolizione della proprietà privata e di ogni forma di possesso, denaro compreso. More racconta che a Utopia <<non c’è ombra di proprietà privata>>, <<fabbricano d’oro e d’argento… gli orinali e i vasi per ogni sporcizia>>, <<è stata soffocata del tutto qualunque avidità di denaro grazie all’abolizione del suo uso>>. Nella Città del sole (1620) di Tommaso Campanella: comunione dei beni ed abolizionedella maternità e della paternità. Anche nella teocratica Repubblica di Cristianopoli descritta da Andrea <<nessuno possiede in proprietà una casa privata>>. Analogamente <<il tuo e il mio sono sconosciuti nell’isola di Agiaò>> scrive De Fontanelle in Storia degli agiaoiani (1768). Non diversamente in Icaria, dove – spiega Cabet – << il capitale sociale provvede anche al nostro nutrimento, a fornirci alloggi, arredamento e vestiti>>, dove <<il denaro, l’acquisto e la vendita sono completamente inutili>>. <<Ripulita la tela>> dal ricordo delle idee di possesso e di pluralismo economico, politico e culturale, lo Stato Utopianoavvolge e controlla, regola e uniforma la condotta della collettività: organizza l’educazione dei giovani, detta i comportamenti sessuali, fìssa l’ora dei pasti, la durata del lavoro e quella del sonno. prerequisito fondamentale per la realizzazione del Paradiso in terra è indicata l’eliminazione di ogni forma di pluralismo politico e culturale. Nell’isola immaginata da More <<è delitto punito con la pena capitale discutere affari pubblici fuori dal Senato o all’assemblea popolare>>, mentre nella <<repubblica democratica>> d’Icaria è abolita la libertà di stampa: sono permessi <<un solo giornale comunale, uno solo provinciale per ogni provincia, e uno solo nazionale per ogni nazione. (…). La redazione dei giornali (è affidata) a funzionari pubblici eletti dal popolo>>. La <<legislazione ideale>> non è costituita da leggi, ma da semplici ed inviolabili <<regole di vita>>. Per chi trasgredisce le regole – come ricorda Cabet nella sua descrizione di Icaria – la punizione più severa è <<l’esecrazione pubblica>>. Ovviamente ciò che le regole realizzano non è certo uno Stato giuridico, bensì uno Stato Etico. I legislatori utopiani sono certi, come lo era Dom Deschamp, <<che gli uomini non hanno bisogno dello Stato giuridico, ma dello Stato Etico, lo Stato sociale senza leggi>>, in quanto <<ciò che l’uomo ritrova e realizza attraverso lo Stato Etico è la sua Unità fondamentale con le cose>>. I fondatori della Città Ideale sostengono di aver ultimato il cammino umano attraverso la Storia. Essi ritengono di aver raggiunto la <<decima epoca>> preannunciata da Condorcet, dove, << smussati gli ostacoli tra gli uomini e la verità>>, è possibile edificare << lo Stato Etico>>. Realizzare l’ordine naturale, l’unità tra gli uomini, l’unità fra questi e la natura. Insomma ricomporre l’unità fra l’essere ed il valore frantumata dall’avvento della proprietà privata e dallo spirito competitivo, fondere ogni aspetto della realtà in un unico ed immobile Grande Tutto. Essere uno – come ha efficacemente sintetizzato Friedrich Holderlin nell’Iperione – con Tutto ciò che vive!>>.