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Che la storia del centrosinistra non sia costellata di grandi successi è indubbio, ma quando l’unica vittoria in un magro palmarès si chiama “primarie” (con le dovute riserve), allora c’è qualcosa che non va. Tutte le analisi degli ultimi tempi si sono incentrate sul cosiddetto fenomeno
Grillo. In realtà, dovrebbe essere indagato con il medesimo interesse un altro fenomeno, piuttosto paranormale: il fenomeno
Pd.
Diciamolo chiaramente, il centrosinistra si è suicidato per l’ennesima volta. Supponente, dopo il bagno di folla delle primarie credeva di avere la vittoria in pugno e ha smesso di correre, ammesso che prima corresse. Inspiegabilmente, ha nuovamente permesso che l’agenda della campagna elettorale fosse eterodiretta, dettata dai suoi due più agguerriti competitori,
Grillo e
Berlusconi.
Quest’ultimo, in particolare, è riuscito nell’impresa di far dimenticare agli italiani tutto ciò che fino a un anno prima faceva continuamente indignare l’opinione pubblica nostrana ed estera. Non solo, ma è riuscito anche in un’impresa più grande: far passare il
Pd come l’alleato di ferro del grande “tassatore”, sorvolando su un particolare non proprio trascurabile, l’appoggio del Pdl a quello stesso
governo contro il quale si è poi scagliato per tutta la campagna elettorale.
E il
Pd? Imbambolato. I suoi esponenti impacciati, comparse televisive incapaci di smuovere coscienze, di instillare un qualche genere di entusiasmo, di spiegare in maniera chiara anche solo uno dei presunti punti del programma. Dei “geni” della comunicazione, si dirà, come d’altra parte si sostiene da tempo. Ma siamo proprio sicuri che si tratti solo di limiti comunicativi, pur evidenti nella loro imbarazzante pochezza? Forse bisognerebbe seriamente cominciare a pensare che questo partito abbia soprattutto grosse carenze contenutistiche, in parte riflesso di uno storico peccato originale che ha fatto ormai del compromesso tra istanze diverse il tratto distintivo del centrosinistra, per altro verso il portato di un’incapacità di fondo nel saper costruire una valida visione del futuro del Paese. In effetti, l’impressione che danno gli
uomini che ne fanno parte è di gente stanca, la quale sembra non avere fiducia neanche in se stessa, facendo ormai sempre più esclusivo affidamento sulle leve imposte dalla
politica europea, quasi a voler evitare di volersi assumere in prima persona le responsabilità nella gestione di un contesto così delicato.
Mentre
Bersani andava in televisione sbiascicando
parole, mugugnando frasi a tratti incomprensibili, non terminando mai un periodo e affidandosi a curiose quanto inconcludenti metafore, i suoi avversari diretti facevano terra bruciata, conquistando credito e voti, a prescindere dalla credibilità intrinseca delle loro proposte. Insomma, per dirla con una parola, peraltro estranea al vocabolario del centrosinistra, sono stati efficaci.
Un misto di presunzione, svogliatezza e inconsistenza è la ricetta ideale del fallimento. Il fallimento di una visione mai nitida, incerta, di un costrutto ideale debole e assai poco identificabile, di un recente passato dove la mancanza di forza propositiva e di personalità è stata fatta passare per senso di responsabilità.
Si dicano le cose come stanno: il
Pd così com’è non va, non piace, non convince, non ha mordente. La sua anima è quella di un progressismo mummificato, immobile, inerte, spesso contraddittorio. Le stesse primarie sono state un esempio di
democrazia partecipativa fino a un certo punto. Dopo il primo turno, meglio blindare la vittoria di
Bersani evitando di allargare la partecipazione, vai a sapere. Mossa certo poco intelligente se si cerca di conquistare un elettorato trasversale. Tanto clamore anche sulla legge elettorale, poi vai a vedere e ti accorgi che è ancora lì anche per volere del
Pd medesimo, speranzoso che quella porcata potesse dargli una solida maggioranza, confidando fideisticamente sulle previsioni della vigilia che lo davano sicuro vincitore. Guarda caso però, la porcata si è confermata tale e gli si è ritorta contro, poveri ingenui. Per fare i furbi, bisogna esserlo. Poche luci, insomma, e tante, troppe ombre.
E non è finita qui. Negli anni passati, il centrosinistra ha dovuto guardare
Berlusconi imperversare, ristagnando in una condizione di assoluta impotenza. Poi ha fatto la parte della ruota di scorta di un
governo “tecnico” divenuto presto inviso a molta parte dell’elettorato. Ora, il rischio concreto è di divenire ostaggio di
Grillo e del suo movimento, il quale non aspetterà altro che un passo falso del
Pd per raccogliere, ad eventuali nuove
elezioni, un bottino ancor più prezioso.
Si obietterà che tali giudizi sono eccessivi, che in fin dei conti il
Pd rappresenta pur sempre la prima forza partitica italiana. Questa critica potrebbe essere accolta se a queste
elezioni fossimo arrivati in condizioni diverse, ma non è così. Le premesse per una vittoria piuttosto agevole c’erano tutte. E tutte sono state puntualmente dissipate. Non ci sono scuse. Un grande partito
progressista avrebbe dovuto e potuto asfaltare letteralmente gli avversari, avrebbe dovuto stravincere. Sono riusciti nell’impossibile: vincere le
elezioni, perdendole clamorosamente. La colpa è tutta del centrosinistra. Se il
Pd merita di perdere, è l’
Italia che non merita il
Pd.