Memorie dal sottosuolo del lockdown

Nel chiuso delle nostre case, il lockdown ci priva dell'illusione dell'essere.

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La regola vuole che dopo un anno si possano stilare i bilanci ma, nel caso della pandemia, bisogna derogarla, non è ancora ora di bilanci. Ci siamo ancora dentro, troppo invischiati per poter oggettivamente separare gli attivi dai passivi. Soprattutto ora che, di fatto, in Italia siamo tornati in lockdown, pur se chiamato dai giornalisti e dal governo in maniera diversa. Ma è solo una questione nominale mentre la sostanza resta invariata.

L’ennesimo lockdown ci sta prostrando, perché oltre a recluderci in casa al fine di salvaguardare il funzionamento del sistema sanitario, ci proietta in un tempo che assume la forma circolare dell’eterno ritorno. L’eterno ritorno del rosso scandito da flebili momenti di giallo e arancione. A volte c’è il bianco sì, ma quanto dura?

Perdonate il pessimismo che aleggia in queste poche righe ma francamente è difficile sperare nelle doti taumaturgiche dell’attuale governo, al quale si chiede la moltiplicazione dei vaccini con l’imposizione delle mani. Ma si sa, nella disperazione ci si appiglia ai miracoli!

Al di là delle invocazioni mistiche, resta il lockdown. La chiusura generalizzata dei maggiori luoghi di aggregazione sociale e la reclusione coattiva anche se a fin di bene. Tutto ciò significa un ritorno a quel sottosuolo, descritto magistralmente da Dostoevskij nelle sue Memorie dal sottosuolo. Anche noi, da quell’angolo buio e segreto, rintanati con le nostre paure formuliamo le considerazione più irrazionali, maturate nel lento scorrere di ore solitarie, amplificate dalle irradiazioni digitali degli schermi.

I governanti, a cui forse non piace lo scrittore russo, tentano di risolvere il problema pandemia senza scomporlo nei vari ambiti che vanno dal sanitario all’economico, passando per il campo della psicologia. Chiudere tutto per impedire l’impennarsi della curva, trasformando l’Europa tutta in un enorme lazzaretto. Questa scelta estrema e logica allo stesso tempo deriva da un modello matematico, corretto scientificamente, ma che tralascia il soggetto di tutto: la natura umana. Quella vischiosa melma schiumante di rabbia che sfugge ai sistemi. Così sfuggente, che gli autori sistemici hanno sempre dovuto usare la forza per obbligare l’uomo ad essere docile. Suvvia, rimanendo nel religioso, anche il Paradiso annoia, come potrebbe placarci il lockdown?

La quiete del Paradiso come l’immobilità del lockdown risveglia in noi il demone della disobbedienza. Entrambi ci privano dell’illusione della scena, rendendoci consapevoli, inutili, vuote, disperate comparse. Prima del Covid-19, eravamo abituati a recitare una parte nella tragica commedia dell’esistenza. In fondo sapevamo – e lo sappiamo ancora di più oggi – che si trattava di una recita, ma era anche tutto ciò che avevamo, finché il virus non calasse il sipario sulla quotidianità. La finzione nella socialità era tutto per noi. Noi eravamo il nostro personaggio pubblico, che non può sopravvivere solo sui social. La parte che interpretavamo per e con gli altri era la nostra più cara illusione. Sì un’illusione, ma bisogna pure aggrapparsi a qualcosa in questo universo freddo e senza senso. Le illusioni sono come l’aria fresca quando la realtà si fa irrespirabile e in questo presente, che opprime il futuro, l’immanente è davvero insopportabile.

Vito Varricchio

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