Il pensiero politico di Gaetano Filangieri.Una analisi critica

Finalmente l' atteso lavoro di Gaetano Pecora è in distribuzione nelle librerie , edito dalla Rubbettino, con il titolo "Il pensiero politico di Gaetano Filangieri. Una analisi Critica". Per gentile concessione dell' autore anticipiamo l' introduzione al volume

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Introduzione

Si dice che all’origine dei libri – dei libri seri, si capisce – ci sia sempre l’intoppo di una difficoltà, l’ingorgo di una domanda che, discreta, si insinua nell’animo dell’autore e che poi lo cattura per non abbandonarlo più. Non lo abbandona almeno sino a quando domande e difficoltà non vengano superate con la proposta di una soluzione (anche se soltanto provvisoria). E’ come se, all’inizio, i libri – ma sempre di libri seri stiamo discorrendo – è come se i libri, all’inizio, fossero gibbosi, avessero la gobba del punto interrogativo; e che questa gobba svegliasse il desiderio di batterci e ribatterci sopra, fino a spianarla e restituire i pensieri alla forma diritta e affusolata del punto esclamativo. Molte risposte, se ci pensiamo, si annunciano proprio così, corredate di esclamazione.

Non so se questo lavoro su Filangieri abbia la dignità del libro “serio”. Comunque non tocca a me stabilirlo. Ignoro anche se le mie risposte vibrino affermative e abbiano la forza, starei per dire la perentorietà dell’esclamazione. Non ne sono troppo sicuro. Quello che è certo è che di risposte si tratta; che come tali vengono sollecitate sempre e soltanto da lì, da un groppo di domande iniziali che, trascorse rapidamente dalla semplice curiosità al sottile rovello, mi hanno guidato negli studi e nelle ricerche degli ultimi anni. E la domanda delle domande, quella per così dire che mi ha uncinato al gancio del suo interrogativo è la seguente: come si spiegano le altalenanti fortune di Filangieri la cui Scienza della legislazione, prima volò alta nella riconoscenza dei contemporanei che la salutarono come il manifesto della riscossa contro l’abuso e i privilegi; poi, a partire dai primi decenni del secolo decimonono, venne atterrata nella fangaia del confuso e del pericoloso dove è tutto un ripullulare di fermenti assolutistici e libertici; quindi, decaduta nella stima dell’opinione pubblica, fu tenuta in conto di opera di cui bisognasse far cenno e tirare subito innanzi, come di cosa sparita appena nata; e infine – è storia dei giorni nostri – risollevata dalle stagge più basse in cui l’avevano profondata i suoi detrattori, la Scienza corre di cuore in cuore a indicare uno dei momenti più alti della sapienza liberale. Quale mutevolezza di destini! E quanta diversità di interpretazioni! Ce ne è di che per stimolare anche la più sonnacchiosa delle sensibilità. Chi ha ragione? Gli esaltatori o i denigratori? Coloro che celebrano Filangieri come il primo e più compiuto teorico della democrazia liberale? O quelli invece che, avuta la mossa da Benjamin Constant, lo prendono in gran dispetto per la spericolatezza di riforme sempre un po’ visionarie e, loro avviso, già formicolanti di umori giacobini? Chi ha ragione, dunque? Gli uni o gli altri?

No, non la darò la soluzione (la mia soluzione, s’intende) lasciando che essa si dispieghi con comodo nelle pagine del testo. Quello che dirò, invece, è che per destreggiarmi in questa infilzata di pro e di contra ho maturato un’idea; che tale idea mi ha guidato nelle ricerche d’archivio; mi ha aiutato a ricostruire le fonti di Filangieri; mi ha suggerito di sbirciare nella sua corrispondenza e, insomma, mi ha assistito in tutto quanto era necessario al mio lavoro, che è lavoro di sistemazione teorica e, insieme, di impegno storico-filologico (del che anche l’apparato delle note è buon testimone). Ora, ad orientarmi nella ridda delle interpretazioni che strattonano la Scienza di qua e di là, è venuta l’idea – presto mutatasi in robusta convinzione – che, sì, i critici ci avranno pure messo del loro; che, sì, essi avranno anche giocato di fino con il magistero di Filangieri, ora girandolo in un modo ora voltandolo in un altro per costringerlo in schemi che però erano già preparati nella loro mente. Ma che tutto questo ancora non sarebbe bastato a spiegare la folla delle letture che s’è raccolta sotto le bandiere della sua opera. Perché, vedete, quando ciascuno studioso ha abbassato quel che altri ha rialzato, quando ha diminuito ciò che altrove è aumentato, quando ha agito così, ha poi sempre trovato la pagina, il capitolo, addirittura libri interi della Scienza ha trovato che confortano di prova i suoi assunti. Segno, mi pare, che gli screzi tra gli interpreti non derivano (soltanto) da sottigliezze ermeneutiche o da capricci esegetici ma che in realtà essi siano il riflesso di un pensiero – quello di Filangieri – al quale manca l’unità dell’ispirazione e dove spesso si accavallano gli elementi più diversi i quali finiscono con l’urtarsi tra loro e col metterlo in contraddizione con se stesso.

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Una prova di questa indole contrastata e di questo frastaglio di ragionamenti così eterogenei, mi è parsa di coglierla fin nella sua concezione del diritto (cui vengono dedicate diversi paragrafi del libro), bilanciata com’è siffatta concezione su un equilibrio instabile, ora inclinato verso la lezione giusnaturalistica, ora piegato alle soluzioni positivistiche. Con la conseguenza che le stesse prerogative dei singoli (esaminate una per una nella seconda parte del saggio) si accendono di una luce crepuscolare ed incerta, dove a rigide chiusure succedono d’un subito audacissime aperture sugli orizzonti della libertà.

Debbo confessare, a questo punto, che il primo sospetto sull’ancipite identità di Filangieri, mi si è affacciato assai presto, addirittura agli inizi delle mie letture, e precisamente con il “Piano ragionato dell’opera”, che è un anticipo rimpicciolito della Scienza, una specie di bussola, diciamo, con il quale l’Autore prefigura il cammino e aiuta a seguirlo sulla sua strada. Ad un certo punto, però, l’ago magnetico di questa bussola ha preso ad oscillare come impazzito, spostando velocissimamente la sua punta da destra a sinistra e da sinistra a destra, senza che io sapessi cosa fare e dove andare. Ed è quando, in un brano che conviene riportare per larghi tratti, Filangieri scrive così: “è giusto che essa [la scienza della legislazione] esamini quali sieno gli ostacoli che si oppongono a questi progressi” (è del progresso della ragione che sta discorrendo); “quale la direzione che si dovrebbe dare ai talenti; come richiamarli allo studio della patria sotto gli auspici della libertà; come distrarli dalle occupazioni più fastose che utili; … come profittare della discussione, madre feconda della verità, discussione che la diversità delle opinioni produce, allorché l’autorità non spaventa la penna dello scrittore, e non ritarda il corso delle sue speculazioni; come guidare tutti i talenti diversi degli uomini ad un oggetto comune; come indurre le belle arti stesse a pagare un tributo all’utilità pubblica” ecc. ecc.

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Ecco: questo mi è sembrato un tipico ragionamento spiazzante, ad andate e ritorni, dove una brusca torsione del pensiero fa affermare esattamente ciò che si nega subito dopo. E infatti, se la legislazione deve dirigere i talenti, di grazia, come è possibile che siffatti talenti maturino sotto gli auspici della libertà? E allo stesso modo: se l’autorità non deve spaventare la penna degli scrittori, né deve presiedere al corso delle loro speculazioni, come farà poi a guidarli verso un oggetto comune (l’utilità pubblica) e a distrarli dalle occupazioni effimere? E chi stabilisce quale occupazione deve tenersi per effimera? Il sovrano? Ma allora il sovrano diverrà l’arbitro delle nostre preferenze e il giudice dei nostri gusti. Con tutto quel che ne viene per la libertà individuale che è, appunto, la libertà di scegliere secondo le proprie inclinazioni. O è così, o non è niente.

Poiché neppure ai riformatori più arditi è consentito sciogliere del tutto i legami con il loro tempo, occorreva stabilire se di questi soprassalti illiberali bisognasse farne gran carico a Filangieri, o se invece essi fossero il solo frutto che la sua stagione potesse produrre. Donde un giro di orizzonte per vedere se altro ci fosse nei dintorni dalla cui tempera, già allora, fossero usciti meglio riscaldati i sentimenti e i ritrovati della libertà. Così come era necessario domandarsi se gli anni – cinque ne occorsero perché Filangieri licenziasse personalmente i volumi della sua opera (l’ultimo, incompiuto, fu pubblicato postumo nel 1791) – se gli anni, dicevo, avessero influito sul corso dei suoi pensieri o se invece egli fosse rimasto arpionato lì, a quel segreto disaccordo, a quel fitto contrappunto di motivi in contrasto che già in boccio s’era annunciato nel “Piano ragionato”. Problemi diversi, come si vede, la cui soluzione, ancora una volta non desidero richiamare adesso. Perché adesso mi preme confidare al lettore come tutto sia nato da lì, da quell’iniziale sospetto, da quelle letture degli esordi, accostandomi alle quali e frugandovi dentro con sempre maggiore pazienza, mi è parso di riconoscere l’orma di due opposte tradizioni di pensiero, l’una che fa dell’individuo il principio e la misura di ogni cosa, e l’altra che lo risucchia in una realtà più grande (l’utilità pubblica, il popolo o lo Stato) da cui egli ricava la dignità e la sua ragion d’essere. L’avrete capito: qui si parla di individualismo e di organicismo, avversari di antica ruggine che si contendono Filangieri senza che mai nessuno dei due riesca definitivamente a conquistarlo alla propria causa. Capita così, per esempio, che la Scienza saluti Locke come autore “immortale” e nello stesso tempo levi alta la fama di Platone come genio “sublime” e addirittura “divino”. Non è facile coniugare l’individualismo giusnaturalistico dell’uno con il gorgogliante empito comunitario dell’altro. Filangieri c’è riuscito. C’è riuscito, naturalmente, a prezzo di acquistare in varietà e colore quello che perde in profondità e coerenza. E’ come se in lui ci fosse un sopra e poi un sotto; sotto – sotto l’individualista, dico – brontola un organicista in dispetto; e viceversa, sopra l’organicista canta l’individualista di buona vena. Individualismo e organicismo, insomma, sono così attaccati tra loro, che quasi vien da pensare alla sogliola: c’è un diritto, c’è un rovescio. Ma la faccia non la vedi mai. E’ indefinibile, sfuggente. Ambigua. Sì, “ambigua” è l’aggettivo che fa al caso. Tanto fa al caso – in vena di confidenza posso anche dirlo – che avrei voluto richiamarlo fin dagli esordi, licenziando il mio saggio con questo titolo: “L’ambiguo diritto di Gaetano Filangieri”, oppure “Il pensiero ambiguo di Filangieri” (o qualcosa del genere). Sennonché amici con maggiore traffico di mondo, a cominciare dal mondo accademico, mi hanno sconsigliato dal farlo. “Ambiguo” – mi han detto – è vocabolo troppo diretto, troppo aguzzo, e avrebbe finito per mettere in mala grazia il lettore, quasi come se volessi colpirlo con le punte di un velenoso pamphlet. Poiché non era questa la mia intenzione, e – sul serio – rimango convinto che anche quando Filangieri ci lascia in una mezz’ombra incerta è pur sempre in una atmosfera superiore che egli ci trasporta, non ho avuto difficoltà ad accogliere il loro suggerimento. Ed eccomi allora alle prese con “Il pensiero politico di Gaetano Filangieri”, che è un giro di termini più freddo, forse più sobrio, in ogni caso meno urticante. Salvo poi aggiungere come sottotitolo “Una analisi critica”. Dove in quella parola lì (“critica”, appunto) un orecchio allenato avvertirà subito l’eco di una indagine che non vuole spandersi in monumentalità celebrative e che invece vuol fare le giuste parti sul conto di Filangieri, registrandone gli attivi ma senza dimenticare i passivi, accendendone le luci ma senza velarne le ombre. Che è, credo, il primo obbligo di un “libro serio”.

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Gaetano Pecora