Il senso della Storia: dalla teleologia al revisionismo

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Mentre decine di storici dibattono sul senso – nella doppia accezione di significato e di direzione – della Storia, la stragrande maggioranza degli uomini comuni, che popolano le città dell’Occidente, hanno, di fatto, consapevolmente o inconsapevolmente rinunciato a proseguire lungo la via di un ipotetico pellegrinaggio esistenziale verso la Terra Promessa. Di quel particolare tipo di pellegrinaggio verso un Fine Ultimo di Purificazione del mondo da tutti i mali. Fine dettato, appunto, da una qualche interpretazione teleologica della Storia. Certo, una rinuncia psicologicamente dolorosa, ma inevitabile, dopo aver finalmente constatato che la storia non è regolata da leggi – come la fisica – e che essa non procede, per fasi necessarie e predeterminate secondo una sequenza di cause ed effetti, verso la realizzazione del Paradiso in Terra. La Storia, quindi, non rappresenta, come pensava Hegel, l’incarnazione dell’ineluttabile dover-essere dello Spirito. La storia, non è, e non può essere altro, che un racconto. Forse, certe volte, ricorda, parafrasando Shakespeare, il « racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore, e che non significa niente ». Altre volte si presenta come un racconto, redatto sulla base di una documentazione attendibile da un professionista, più o meno bravo, che di mestiere dovrebbe limitarsi a fare lo storico. Lo storico, appunto, e non il profeta, né assurgere — come spesso è avvenuto nella famiglia degli storici – al ruolo di novella Parca che tesse le trame dell’umana vicenda. Dopo dieci secoli dalla nascita di Cristo, il compimento del primo millennio registrò la confutazione delle promesse apocalittiche del messianesimo cristiano: la fine del mondo e l’avvento del Regno dei cieli non si compirono. Mentre il Ventesimo secolo si è concluso denunciando la falsità e l’orrore delle promesse palingenetiche del messianesimo ateo: le utopie omicide del comunismo e del nazismo si sono consumate nei gulag e nei campi di sterminio. La storia non può e non dovrà mai più rappresentare la Nuova Divinità, la Fonte legittimante dei valori. E lo storico dovrà resistere alla tentazione di autoproclamarsi unico interprete e profeta del messaggio. « II cinismo, la divinizzazione della storia – avverte Camus – il terrore individuale o il delitto di Stato, queste conseguenze smisurate nasceranno allora interamente armate da una equivoca concezione del mondo che affida alla sola Storia il compito di produrre i valori e la verità ». In altri termini, gli eredi di Hegel, coloro che hanno creduto di aver risolto I’ « enigma della storia » e di possedere la verità, hanno indicato l’infernale via totalitaria per la realizzazione del Bene assoluto e generale. Così, per opera di Marx, che ritiene di avere svelato, secondo le « leggi operanti con bronzea necessità», il divenire della Storia ed il Fine Ultimo, la storia stessa diventa contemporaneamente conoscenza scientifica e salvifica. Finalmente, e speriamo definitivamente, è calato il sipario del tempo sulle tentazioni totalitarie. Certo, fuori dal sacro Piano provvidenzialisticodella Storia, il divenire del mondo non risulta più decifrabile attraverso una rassicurante visione teleologicamente orientata; ed appare drammaticamente come « una infinità priva di senso», ma, come nota Weber, è questo « il destino di un’epoca di cultura che ha mangiato dall’albero della conoscenza». In questo «mondo disincantato», la storia – ricordando l’insegnamento orteghiano – depurata dalla degenerazione teleologica, non può che essere un insieme di procedure metodologiche per indagare su quanto è già avvenuto e per evitare di ripetere gli errori commessi. « Dio è morto» trascinando con sé – come ha spiegato Nietzsche – l’impalcatura metafisica sulla quale si reggevano i valori ed il divenire del mondo, ma non per questo l’uomo occidentale deve restare fissato alla condizione di eterno « orfano di Dio » o negarsi nella banalità della vita quotidiana e nella barbarie della massificazione. La vita stessa deve costituire il valore supremo. Una vita fondata – secondo Ortega y Gasset – sull’etica dell’autenticità verso il proprio lo e sull’etica della responsabilità nei confronti della collettività che sopravvive, comunque, all’individuo.

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Oltre ogni forma di «revisionismo», il racconto delle vicende di questa collettività, errante nell’ignoto e nell’infinito, finalmente esposte nella loro atroce stupidità, fatta di orrendi ed inutili massacri, potrà chiamarsi storia.

Ludovico Martello