«L’argomento migliore contro la democrazia è una conversazione
di soli cinque minuti con l’elettore medio»
(Winston Churchill)
1.1 La biografia politica
Robert Michels (Colonia 1876 – Roma 1936) è lo studioso che può rappresentare il punto di arrivo della prima generazione di elitisti, e questo per le estreme conseguenze teoriche a cui giunge a seguito delle sue riflessioni, ma anche in virtù di quel bagaglio concettuale appreso dai suoi illustri predecessori. Analizzare la sua opera significa addentrarsi in un universo pluridisciplinare costituito dai suoi variegati interessi. Fu economista, sociologo, scienziato politico e storico del movimento operaio e, soprattutto, un intellettuale cosmopolita, padrone di tre lingue, militante socialista in Germania e in Italia, pacifista e libertario in gioventù, ammiratore di Mussolini e uomo d’ordine nella maturità.
Prima di addentrarci nel vivo della riflessione più prettamente elitistica di Michels è opportuno chiarire la sua parabola di militante politico, una parabola che lo condurrà, con un salto non indifferente, dalla convinta militanza giovanile nel socialismo e nel sindacalismo rivoluzionario all’approdo fascista degli anni della maturità.
Tra il 1902 e il 1909 Robert Michels fu innanzitutto un socialista, militante della SPD tedesca dal 1903 al 1907 e soprattutto, e prima ancora, del PSI italiano dal 1902 al 1909. La sua biografia politica si compone schematicamente di tre fasi. La prima si colloca negli anni che vanno dal 1901 al 1903 e vi si manifesta un cauto riformismo sociale1; ad essa segue la fase dell’accostamento ad una netta intransigenza rivoluzionaria, con un’evidente radicalizzazione delle sue posizioni, collocabile negli anni 1903-19052; infine, la terza fase, comprendente il periodo che va dal 1905 al 1907, contrassegnata dall’avanzare della critica sempre più serrata nei confronti delle scelte legalitarie e parlamentari del partito socialdemocratico tedesco3. In realtà, si potrebbe aggiungere una quarta fase, tra il 1907 e il 1910, nella quale Michels fa proprie le categorie del teorema mosco-paretiano, le quali si abbattono come una scure sulle precedenti convinzioni.
Procediamo con ordine. Possiamo definire il giovane Michels come un marxista? Egli stesso si definiva tale, ma il suo era un marxismo più metodologico che ideologico. Ciò che del marxismo lo attraeva era il metodo d’interpretazione della storia e della realtà; del marxismo egli fu soprattutto un “utilizzatore”4. Michels si richiamava esplicitamente alla concezione materialistica della storia, ponendo l’accento soprattutto sul coefficiente economico come strumento di decodificazione delle causalità fenomenologico-storiche.
Nonostante questa impostazione, ed in riferimento al caso tedesco, era convinto che non sempre le forme di dominio coincidessero con una sovrastruttura costituita da rapporti economici di produzione. Il politico poteva essere ed era per lui spesso determinante rispetto all’economico. Il materialismo storico pecca per i medesimi vizi delle proprie qualità in quanto la vita spirituale, le ideologie e la vita politica vengono da esso ridotti a meri riflessi dell’economia. Michels aderisce ad un metodo e non ad una dottrina. Il suo è un marxismo positivistico, ma non deterministico.
E’ con tale bagaglio culturale che Michels si volge al socialismo italiano, che su di lui esercitava una grande attrattiva in virtù della larga presenza tra le sue fila di una vasta schiera di intellettuali e anche per la sua apprezzata componente etica, nutrita da forti dosi di solidarismo e umanitarismo. Egli riteneva il PSI più genuino e intransigente della SPD tedesca, partito minato dalla trasformazione da puro partito di classe in un partito parlamentare di massa di tipo moderno, votato alla competizione elettorale in vista di una partecipazione attiva al governo e della conquista di quote di potere. Agli occhi di Michels (come a quelli di Kautsky, sostenitore di un marxismo ortodosso) tutto ciò costituiva un inaccettabile tradimento e stravolgimento dell’originario carattere rivoluzionario e della tensione ideale che contraddistinse il primigenio volto della SPD5. Per lui la nuova dimensione assunta dal partito era un sintomo della perdita dei “suoi artigli rivoluzionari” e causa della sua trasformazione in “un buon partito conservatore”6.
Un partito operaio a vocazione maggioritaria punta ovviamente all’allargamento della propria base sociale con un’inevitabile annacquamento dell’identità proletaria e del suo carattere rivoluzionario. La conseguenza è l’approdo a tendenze di partito interclassiste e moderate e ad una pratica riformista che sfiora l’immobilismo. Anche e soprattutto per questo, Michels si volse ben presto verso il sindacalismo rivoluzionario, unica oasi puramente e fieramente ostile ad ogni compromesso, antiparlamentare e quindi antilegalitaria. “Il legalitarismo – scrive Michels – è il frutto secco del parlamentarismo.[….] Il socialismo deve forzatamente essere antilegalitario perché le leggi odierne gli sbarrano la via alla vita. To be or not to be. Il socialismo – non esistendo i mezzi legali a rivoluzionare le leggi – ha l’inevitabile dovere di rovesciare illegalmente la legalità esistente. […] Il socialismo non può essere legalitario «sous peine de s’enterrer vif». […] Non si possono cambiare i rapporti sociali – e nemmeno quelli politici – senza ricorrere ad atti illegali. Ma atto illegale vuol dire violenza! Thai is the question!”7
Michels, nell’ottica della sua intransigenza ideologica, scorgeva nel sindacalismo rivoluzionario francese ed italiano quell’energia rivoluzionaria e quella volontà di rigenerazione sociale che stavano fatalmente scomparendo dall’orizzonte teorico e pratico della socialdemocrazia tedesca, teorizzando al contempo la necessità di una strategia apertamente antilegalitaria. “Ogni rappresentanza è sempre tradimento” e “rappresentanza – il male di cui era affetto il socialismo riformista – significa necessariamente corruzione ed imborghesimento.”8 Era fermamente convinto che il sindacalismo potesse ricondurre i partiti socialisti sulla via rivoluzionaria; d’altronde, lo stesso Lagardelle affermava: “Il sindacalismo non nega i partiti, ma solo la loro capacità di trasformare il mondo.”9
Il Michels di questi anni appoggia con entusiasmo queste posizioni, anche violente, ed è completamente agnostico nei confronti del circuito elettorale, è antiriformista, antimonarchico e antimilitarista10. In questa fase, più che Marx, i modelli culturali e politici che si ritrovano in Michels sono ravvisabili in Proudhon e in Bakunin.
Ben presto però verrà meno anche la fede sindacalista; “…non vi ha dubbio – scriverà Michels – che i sindacati subiscono gli stessi pericoli dei partiti politici, perché essi si basano sul medesimo principio fondamentale, vale a dire sul principio della rappresentanza.”11 Il disprezzo per questo concetto si ritrova d’altra parte proprio in Bakunin, in Stato e anarchia, laddove, in relazione alla democrazia rappresentativa, si legge: “…questa nuova forma di Stato, fondata sulla pretesa sovranità di una pretesa volontà del popolo che si suppone espressa da sedicenti rappresentanti del popolo in assemblee definite popolari, riunisce in sé le due principali condizioni necessarie al loro progresso: la centralizzazione dello Stato e la reale sottomissione del popolo sovrano alla minoranza intellettuale che lo governa, che pretende di rappresentarlo e che infallibilmente lo sfrutta.”12
Il distacco definitivo dal socialismo si colloca in un arco di anni che coprono il periodo tra il 1907 e la Prima guerra mondiale, e i motivi che lo causano sono di ordine politico e teorico (l’uscita dei sindacalisti rivoluzionari dal PSI e l’incontro con l’elitismo). Inoltre, egli “scopre la nazione” all’indomani della crisi balcanica del 190813, un punto di rottura per molti socialisti, che passano armi e bagagli nelle fila del nascente movimento nazionalista italiano (per Michels il momento decisivo è rappresentato dal conflitto in Libia).
E’ però lecito chiedersi come mai colui che fino a pochi anni prima aveva professato un rigido internazionalismo e antimilitarismo possa nel breve volgere di qualche anno farsi assertore dell’imperialismo e del nazionalismo. La risposta sta nella crisi di valori del socialismo, che pur aveva fatto entusiasti proseliti solo vent’anni prima. Esso stava infatti perdendo quell’aura eroica e quell’integrità morale che ne avevano costituito i principi fondanti, non riuscendo più ad esercitare quella forza d’attrazione così energica come la aveva avuta in precedenza. Il socialismo del 1910 non è più quello degli inizi; integrato nel sistema rappresentativo-parlamentare, gestisce le sue quote di potere locale e si esercita quotidianamente con il compromesso politico. E’ un passaggio dal mito alla realtà, dalla poesia alla prosa, dall’ideale alla prassi che lascia disgustati gli intellettuali rivoluzionari più idealisti ed intransigenti. Insomma, se l’internazionalismo non può essere vissuto in modo assoluto, meglio volgersi al nazionalismo, avulso da compromessi e fiero assertore di un’etica dell’eroismo e del sacrificio. A questa tendenza Michels non fa eccezione, caso ancor più paradigmatico se si considera che sposa la causa nazionale di un Paese che non è nemmeno il suo, ma che lo sarebbe diventato in seguito.
1.2 Il Michels elitista
I due più importanti studi preparatori della Sociologia del partito politico nella democrazia moderna, il suo lavoro fondamentale, sono L’oligarchia organica costituzionale del 1907 e La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia del 1910.
Ne L’oligarchia organica costituzionale, ormai, i suoi riferimenti, benché permanga in lui la portata della tradizione rousseauiana, anarchica e socialista, sono da ravvisarsi soprattutto nella scuola mosco-paretiana, d’impianto nettamente elitistico. Una teoria, quella dell’élite, situata, in maniera assoluta, fuori dal quadro filosofico dell’idealismo; in effetti, l’élite è un concetto empirico che codifica dei tipi sociali ed è desumibile grazie appunto ad un’analisi sociale, non essendo certo definibile come una categoria dello spirito universale.
La maturazione ideologica e politica di Michels ha fatto sì che i capisaldi ideali di un tempo come il concetto di “volontà del popolo” fossero da lui interpretati come mere finzioni. Egli si va definitivamente convincendo della validità della diagnosi mosco-paretiana circa l’esistenza di un’eterna classe politica, convinzione che di lì a poco lo avrebbe condotto alla formulazione della ben nota “legge ferrea dell’oligarchia”. Come investito da una rivelazione, Michels si libera improvvisamente dai paraocchi che lo avevano accecato sino ad allora e, armato di realismo come non mai, si accinge ad affrontare i temi centrali del pensiero e della teoria elitista: l’indifferenza della maggioranza; la stretta dipendenza di essa da una minoranza organizzata; l’effet de mirage della rappresentanza e della delegazione; le tendenze ereditarie nella trasmissione del potere da parte delle minoranze dominanti; la burocrazia intesa come strumento per la conservazione del dominio; la circolazione delle élites14; gli ostacoli che impediscono l’avvento di una democrazia sostanziale.
Ricalcando analoghe considerazioni già elaborate da Mosca e Pareto, la lotta contro il potere costituito da parte di una classe emergente e giovane, sotto il velo retorico del fine di “…emancipare l’intera società umana dal giogo oppressivo di una piccola minoranza tirannica e dominatrice”15, nasconderebbe in realtà il semplice obiettivo di impadronirsi di quel potere detenuto dall’altrui mani. “Ogni classe nuova che entra in battaglia contro i privilegi di una classe già arrivata al potere (sia economico che politico) inscrive sulla sua bandiera la parola d’ordine: «Rivendicazione del genere umano».”16 Il punto è che, anche qualora il malcontento delle masse riuscisse nell’intento di spodestare una classe dirigente, si troverebbe necessariamente di fronte al bisogno di istituire nel suo seno un’altra minoranza con il compito di adempiere alla funzione di nuova classe dirigente. Con la conseguenza che “…il Governo, o lo Stato, che dir si voglia, sarà sempre l’organizzazione di una minoranza e né può essere l’emanazione della maggioranza, né tampoco rappresentarla, e la maggioranza dell’umanità è, e rimarrà sempre, impossibilitata, e forse anche incapace, a governare sé medesima. Eterna minoranza, la maggioranza degli uomini si vede costretta, per forza di una dura fatalità storica, a subire il domino di una minoranza, ed a servire di piedistallo alla gloria di questa.”17
In primo luogo, lo studioso italo-tedesco indaga l’importante tendenza sociologica dell’indifferenza e della noncuranza politica della maggioranza, osservando come il numero di uomini e di cittadini attenti e interessati agli affari dello Stato sia esiguo. I più non si avvedono dell’influenza e delle ripercussioni che tali affari possono avere ed ovviamente hanno sulla loro vita privata e sul loro benessere generale. Sbagliava dunque Kant, peccando di ingenuità, nel voler inculcare agli uomini il “santo dovere” di occuparsi dello Stato. Il principio che più sta a cuore smascherare a Michels come il maggior fattore che rende illusorio il parlamentarismo, inteso come governo della massa, è il principio della delegazione, che connota il sistema politico come governo indiretto. Ora, “…dichiarare un governo rappresentante la pubblica opinione e la pubblica volontà, è lo stesso che dichiarare una parte rappresentante del tutto. La delegazione è un assurdo, o, come disse il Considérant «si le peuple délègue sa souveraineté, il l’abdique. Le peuple ne se gouverne plus lui-même, on le gouverne… Peuple, délègue donc ta souveraineté! Cela fait, je garantis à ta souveraineté le sort inverse de celui de Saturne; ta souveraineté sera dévorée par la délégation, sa fille».”18
L’unica differenza tra monarchia e democrazia sta nel fatto che il popolo, invece di scegliersi un re, se ne elegge una pletora. La sola facoltà che lo strumento elettorale concede al popolo è quindi quella ravvisata nell’eleggersi, dopo un dato periodo di tempo, dei nuovi padroni. E qui Michels si lega anche al convincimento di Proudhon, per il quale i rappresentanti del popolo, una volta al potere, si affrancano da esso, e questo è l’esito fatale di ogni potere uscito dal popolo.
Un potente fattore atto alla conservazione del potere è poi la struttura burocratica dello Stato. Ogni Stato tende a riunire attorno a sé e al servizio della propria causa un gran numero di interessati (intercettati soprattutto nell’ambito del ceto medio). Con quest’operazione, il potere statale si assicura la fedeltà di un vero e proprio esercito di funzionari, visto che le sorti di ambedue le parti in causa sono intimamente legate. Infatti, lo Stato, distribuendo ricchezze tra i suoi funzionari, “…si rende schiava una percentuale altissima della società intera. Ed è da osservarsi – sia detto in parentesi – che la classe politica mira ad attrarre a sé con ogni sua cura innanzi tutto quelli tra i suoi cittadini, i quali, per le doti speciali del loro ingegno e della loro mente, potrebbero diventare pericolosi.”19
Riguardo al distaccamento delle élites proletarie e il loro conseguente acclimatarsi nelle fila della classe politica, Michels comincia qui a trattare un tema che avrà più ampio svolgimento nella sua opera maggiore. Ci limitiamo quindi a riportare le linee generali della sua riflessione secondo cui anche un’élite proletaria, nonostante il retroterra culturale di provenienza, subisce una sorta di mutazione di ordine psicologico che la conduce ad una conseguente metamorfosi molto radicale che interessa posizione e funzione sociale. “La macchina del partito prende una data quantità di operai manuali, e per opera dei suoi ingranaggi li trasforma in operai del cervello. […] La dipendenza personale, stretta, meramente materiale del salariato manuale dall’imprenditore capitalista o dal suo direttore, si permuta nel servizio consistente in lavoro intellettuale presso una società impersonale…”20. In questo modo si avvia un processo subdolo ma inevitabile, come detto di ordine soprattutto psicologico, che accentua la tendenza ad una sempre maggiore autoidentificazione del “fuoriuscito” con uno stile di vita e con una cultura piccolo borghesi; si tratta del vituperato processo dell’imborghesimento (tanto evidente in un partito sovraccarico di burocrazia come il partito socialista tedesco).
In definitiva, dunque, osservando tali tendenze, Michels asserisce la validità delle teorie legate alla constatazione dell’esistenza di una classe politica o classe dominante sostanzialmente imperitura. Su questo punto Michels si distingue da Pareto e dal suo concetto di circolazione delle élites. Egli crede piuttosto ad un processo che si risolve non già in una sostituzione, bensì in un’amalgamazione delle élites stesse. Michels ritiene, infatti, che negli Stati retti da un sistema rappresentativo l’opposizione costituzionale miri essenzialmente a farsi “azionista” di quote di potere, amalgamandosi e fondendosi con l’élite al potere. Se, nei propositi (per Michels puramente demagogici) delle nuove sedicenti classi dominanti vi è quello di sostituire completamente la classe precedentemente al potere, nella realtà e nella pratica si assiste al fatto che le classi in concorrenza finiscono con il riconciliarsi al solo scopo di spartirsi il dominio sulle masse. “Pare che la storia stessa – scrive Michels – c’insegni che a nulla valgono i movimenti popolari perché gli elementi più spiccanti che li capitanano, poco per volta sempre si allontanano dalle masse per essere assorbiti dalla «classe politica»…”21.
In conclusione, Michels osserva dunque come tante e tali tendenze sociologiche fungano da insormontabile ostacolo all’avvento della democrazia e, à plus forte raison, all’avvento del socialismo.
L’obiettivo de La democrazia e la legge ferrea dell’oligarchia, lavoro comparso nel 1910, è quello di dimostrare l’irresistibile inclinazione all’oligarchia cui soggiace l’organizzazione di ogni partito. A differenza del saggio precedente, la dimensione presa in considerazione è dunque più ristretta ( quella del partito appunto), tralasciando un’impostazione più ampia che analizzi il sistema politico-sociale nel suo complesso. Michels, nello specifico, si volge ad indagare tali tendenze nel solco dei partiti che contro di esse dovrebbero armarsi, e cioè a dire proprio nei partiti di ispirazione democratica. Egli vede perciò, nell’emergere di questi fattori, anche in tali partiti, una prova inconfutabile del sorgere di tratti degenerativi ed oligarchici in qualsiasi aggregato umano.
Per ovvie ragioni, egli non prende in considerazione i partiti conservatori (dove le tendenze all’oligarchia e alla gerarchia rispecchiano un principio di fondo di cui essi si fanno promotori), ma appunto il partito operaio socialista-rivoluzionario, sovversivo nelle dichiarazioni, democratico nelle intenzioni, ma inesorabilmente anch’esso oligarchico nella realtà dei fatti.
Se i partiti socialisti-rivoluzionari e democratici hanno come loro fine ideale lo sradicamento dell’oligarchia in ogni sua forma, come si spiega che essi stessi la sviluppino al loro interno? Inevitabilmente, risponde Michels, qualsiasi classe ed aggregato umano che rivendichi delle pretese ha bisogno di un’organizzazione economica e politica. L’organizzazione è la sola arma detenuta dai deboli per avere una qualche opportunità di vittoria nei confronti dei forti. “Il principio dell’organizzazione dev’esser quindi considerato la conditio sine qua non per l’idoneità delle masse alla lotta sociale.”22 Spesso però l’organizzazione si cristallizza a tal punto da divenire sinonimo di conservazione. “Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia.”23 In effetti, a ben vedere, l’organizzazione presenta caratteri spiccatamente aristocratici, invertendo il rapporto tra il duce e le masse; in origine il primo è il servitore delle seconde in quanto ad esse vincolato da principi egualitari e democratici. “Ma il formarsi di rami speciali di attività, la differenziazione politica che è conseguenza inevitabile dell’estendersi dell’organizzazione, induce i soci necessariamente a darsi una così detta direzione tecnica, ed a conferire qualsiasi potere deliberativo, come cosa che esige specifiche qualità di duce, ai soli capi. Ed i duci, che dapprima non erano se non gli organi esecutivi della volontà della massa, divengono indipendenti, emancipandosi dalla massa stessa. L’organizzazione quindi spacca definitivamente ogni partito in una minoranza che governa ed una maggioranza che ne è governata.”24
Quanto più un partito (e, aggiungiamo, ogni altra organizzazione) si estende, tanto più si accresce la necessità di ricorrere al metodo delle rappresentanze fisse e stabili e di edificare una struttura tecnica ed amministrativa di direzione. Naturale conseguenza di un simile processo è il restringersi delle possibilità di sorveglianza e di controllo democratico. Il crescere costante delle funzioni comporta un accrescimento di competenze ed una sempre maggiore divisione del lavoro. “La tendenza burocratica ed oligarchica assunta dall’organizzazione dei partiti anche democratici è da considerarsi senza dubbio quale frutto fatale d’una necessità tecnica e pratica. Essa è il prodotto inevitabile del principio stesso dell’organizzazione.”25
Ancora un altro fattore contribuisce al medesimo effetto; il moderno partito politico è un’organizzazione di guerra e, come tale, ha bisogno di sottostare alle leggi della tattica, tra cui primariamente l’esser pronti alla battaglia, alla lotta. Il problema scaturisce dalla profonda incompatibilità che sorge tra la lentezza delle procedure democratiche e la necessità di avere pronte risposte in situazioni dove il decisionismo è l’arma fondamentale per ottenere gli obiettivi prefissati, raggiungibili appunto attraverso una solida e ferrea organizzazione. Lo stesso Lassalle riteneva che la rapidità delle decisioni fosse garantita unicamente dal centralismo e dall’autorità, in quanto una grande organizzazione è già di per sé un organismo appesantito.
La democrazia, semplicemente, non è confacente ai bisogni tattici dei partiti politici. Questi ultimi, per avere speranza di realizzare i propri obiettivi, hanno assoluta necessità di un’indiscussa gerarchia. Pertanto, per motivi di natura tecnico-amministrativa e tattica, si va formando un corpo direttivo di professione e con ciò si creano le condizioni che conducono alla fine della democrazia stessa. “E ciò in prima linea per la logica impossibilità dello stesso sistema dei «rappresentanti». Rousseau ed i socialisti francesi della prima metà del secolo XIX hanno enunciato una profonda verità quando sostenevano che una massa che deleghi la propria sovranità, ossia la conferisca dal suo seno ad un esiguo numerico d’individui, abdica alla sovranità. Egli è che la volontà d’un popolo non è conferibile, e nemmeno quella d’un singolo individuo.”26
Ciò che è stato appena affermato vale in maggior misura in riferimento al mondo contemporaneo, contraddistinto da una vita politica e sociale estremamente complessa e diversificata; se ne deduce che il voler “rappresentare” questa complessità diviene sempre più illusorio e impossibile. Con l’andar del tempo, inoltre, i capi acquistano uno status (derivante dal valore delle loro competenze acquisite) che li rende indispensabili al partito, un’indispensabilità che spesso e volentieri si traduce in vera e propria inamovibilità, principio anch’esso in aperta contraddizione con le linee fondamentali della dottrina democratica. I capi, di fatto, sono del tutto inaccessibili alla massa da un punto di vista sia intellettuale che tecnico, e dalla loro inaccessibilità ne deriva una sostanziale incontrollabilità da parte di quelle stesse masse di cui ognuno di essi si dichiara “l’esponente teorico”. Qualora le masse decidessero di rivoltarsi si troverebbero senza “capo”, impreparate a fronteggiare i compiti richiesti dalla complessa vita politica moderna. “Il più forte diritto dei duci consiste nel fatto che essi sono indispensabili.”27
Alle necessità dell’organizzazione e dell’amministrazione si aggiungono poi quelle di ordine psicologico28. Il potere porta alla volontà di rafforzarlo e consolidarlo, fino al punto di sottrarsi al controllo delle masse; esso determina notevoli cambiamenti nella psicologia di chi lo possiede, ma anche di chi lo subisce (le masse stesse). Il paradosso è che “…nel regime dei partiti democratici, i capi divengono più inamovibili e più inviolabili di qualsivoglia corporazione aristocratica. La durata media del loro ufficio sorpassa di gran lunga la durata media dell’ufficio di ministro negli Stati monarchici.”29
I capi, per parte loro, insistono sull’incapacità della folla di giudicare allo scopo di tenerla lontana dagli affari della politica. Al partito non può ovviamente convenire che la maggioranza incapace di formarsi un giudizio in casi determinati sopraffaccia una minoranza certamente più avvezza a ponderare e ad analizzare questioni strettamente politiche. Per tali motivi, all’interno del partito vige una rigida disciplina e chiunque svolga critiche e si ponga all’opposizione viene additato come detrattore, nemico del partito e soprattutto nemico delle masse. Una tattica ,questa, adottata anche dai partiti rivoluzionari e non dissimile da quella borghese tesa alla conservazione dello Stato; stessa terminologia adoperata contro i sovversivi e medesimi argomenti a difesa dello status quo. Con un’unica differenza: per i primi l’obiettivo della conservazione del partito; per i secondi il fine della conservazione dello Stato.
I capi, una volta eletti, si appellano continuamente alla sovranità e alla volontà manifestata dal popolo come garanzia del loro potere, soprattutto qualora vengano accusati di atteggiamenti antidemocratici o vengano duramente criticati; inoltre, di solito un’ulteriore tattica consiste nel riferire gli attacchi personali che ricevono a tutto il partito, come se essi ne incarnassero l’identità. Parafrasando dunque il motto attribuito al Re Sole si potrebbe dire “Le parti c’est moi!”
In definitiva dunque, il sistema democratico si riduce al diritto delle masse di eleggersi da sé i propri padroni ai quali dovranno una cieca ubbidienza; è il sistema meglio conosciuto come sistema plebiscitario o bonapartistico.
Il punto dolente è che alle masse tutto ciò rimane sostanzialmente ignoto; non vi è da parte loro la reale coscienza di come stiano effettivamente le cose. Esse sono circuite ed ammaliate da una retorica che le rende illuse del fatto che basti depositare una scheda in un’urna per poter farsi compartecipi del potere.
Per Michels quindi, il compito precipuo della scienza politica consiste nello strappare questa benda dagli occhi delle masse rendendole più consapevoli degli ingannevoli intrighi del potere e della falsità della retorica democratica.
Anche i partiti democratici e rivoluzionari sono considerati, dunque, lungi dall’essere la miniatura del migliore degli Stati possibili, la miniatura di uno Stato oligarchico. Il partito, con il crescere della sua forza d’attrazione e della sua organizzazione, dovrebbe in teoria guadagnarne in impatto rivoluzionario. Invece, si assiste al sorgere di una relazione inversamente proporzionale tra la sua crescita espansiva nella società civile e il suo slancio rivoluzionario; al contrario, esso adotta una linea politica sempre più prudente e orientata al compromesso con lo Stato in quanto è da quest’ultimo che dipende la sua propria esistenza. Il partito rinnega allora le tendenze più radicali e sovversive ancor presenti nel suo seno, evitando in tal modo di generare qualsiasi motivo di attrito con l’apparato statale, in virtù di un meccanismo legato ad una sorta d’istinto di conservazione che quindi slega l’organizzazione dal perseguimento degli iniziali fini ideali rendendola fine a se stessa. “Il partito, ne’ suoi giovani anni, non si saziava mai di mettere in luce il suo carattere rivoluzionario, e rivoluzionario non soltanto per la natura della sua meta, ma anche nella scelta dei suoi mezzi pur non preferendoli per principio. Ma, fattosi vecchio e caduco o, con termini più ottimistici, maturo in politica, esso non indugia a modificare la sua originaria professione di fede, affermandosi rivoluzionario soltanto «nel miglior senso della parola», ossia dunque, non più nei mezzi, pei quali soltanto la questura s’interessa, ma puramente nella teoria grigia e sulla carta bianca.”30
L’organizzazione rende, a lungo andare, immobile il partito il quale, non solo rinuncia ad agire, ma smette persino di pensare. L’esempio che Michels adduce come prova per suffragare le sue tesi è la sua esperienza vissuta direttamente all’interno del Partito socialista tedesco, ancorato sempre ad una terminologia rivoluzionaria, ma divenuto ormai conservatore, essendosi adagiato su una tattica di mera autoconservazione all’interno di un sistema politico nel quale il suo ruolo è, nella migliore delle ipotesi, il ruolo di un partito di opposizione costituzionale.
Il punto è che queste tendenze oligarchiche, sperimentate nella realtà dei fatti, si manifestano con una regolarità impressionante nella vita politica dei popoli, e senza rilevanti eccezioni. La natura stessa dell’organizzazione inietterà sempre, anche ai partiti socialisti-rivoluzionari, una potente dose di conservatorismo.
Certo, i principi democratici servono a lenire gli effetti della malattia oligarchica, soprattutto garantendo l’accesso alla cultura a masse di popolo sempre più estese, e questo, perché un maggior grado di cultura significa maggiore capacità di controllo. “A guidare delle masse colte non si hanno le mani così libere, come a guidare delle masse incolte.”31
Resta comunque il fatto che per Michels la democrazia “integrale” è impossibile e la tendenza all’oligarchia diventa la “legge ferrea” che governa non soltanto la vita dei partiti politici, ma ogni gruppo organizzato.
La Sociologia del partito politico nella democrazia moderna (1911) è il punto di arrivo di un percorso che porterà Michels a considerare impossibile l’attuazione dei principi democratici nella dimensione della politica di massa. In quest’opera egli svolge tematiche presentate già nei saggi precedenti, confermandole attraverso un’analisi minuziosa e rigorosamente empirica basata sull’osservazione dell’evoluzione interna al Partito socialdemocratico tedesco, radiografato con estrema accuratezza.
La sua analisi ha il compito di rilevare l’enorme contraddizione esistente nei partiti rivoluzionari tra i principi cui si ispirano idealmente ed i fini effettivamente perseguiti. Per far questo si serve di una metodologia rigorosa che gli permette di classificare leggi e tendenze estraibili dal filtro dell’esperienza32.
Quest’analisi si inserisce nel quadro di una vita politica profondamente diversa da quella del passato, ormai dominata dalle masse e dalle organizzazioni partitiche nate per inquadrarle e per ottenerne il consenso; partiti ed organizzazioni con una struttura permanente, con un apparato di professionisti, con milioni di iscritti, tesi al controllo dei propri parlamentari, aventi una rigida struttura gerarchica e disciplinare e diretti da oligarchie volte a perpetuarsi attraverso la cooptazione, riducendo così drasticamente qualsiasi possibilità di controllo da parte della base.
Se per Mosca e Pareto il campo d’indagine era esteso al sistema politico nel suo complesso, Michels restringe l’analisi ai partiti di massa e in particolare a quelli d’ispirazione socialista. E’ ovvio che, se si riuscissero a mettere in luce tali paradossi in quei partiti, come quelli socialisti e rivoluzionari, dove la democrazia dovrebbe realizzarsi più compiutamente e senza ostacoli di sorta, si potranno trarre indicazioni decisive circa le reali possibilità di realizzazione e applicazione pratica degli ideali democratici.
La scelta della SPD dipende dal fatto che essa poteva essere assunta come “tipo ideale” di partito di massa, un caso allora unico nel continente. Partito fondato nel 1875, nel 1910 aveva tremila funzionari e settecentomila iscritti. Michels concentra la sua attenzione sulla psicologia della leadership, analizza la personalizzazione del potere, il profilo umano del leader, l’immagine che di lui ne hanno le masse ed i contesti strutturali in cui egli opera. La Sociologia è “…un ininterrotto ragionamento sulla patologia della rappresentanza, sul tema classico della sovranità: un ragionamento che a partire dalla premessa rousseauiana di una definizione forte dell’ordine democratico giunge ad una conclusione apparentemente mosco-paretiana, e cioè al teorema elitista dell’impossibilità della democrazia ideale e della falsità delle democrazie reali.”33
Molto si è discusso sull’opportunità o meno di considerare quest’opera come facente parte del campo della sociologia dei partiti politici; in realtà, per le conclusioni teoriche a cui essa giunge, diversi studiosi sono concordi nel considerarla un’opera di democratic theory, un’opera cioè che “…attraverso «una teoria della struttura interna del partito» ricava una serie molto articolata di conclusioni in merito al problema classico della democrazia.”34
La Sociologia, in effetti, è sostanziata da un processo di deduzione derivante dall’analisi di un immenso materiale empirico che conduce Michels a formulare due asserzioni fondamentali: che la democrazia o è autentica o non è; e che la vita interna dei partiti socialisti rappresenta l’ultima spiaggia per verificare la possibilità reale di attuazione della democrazia ideale. Il punto da tener ben presente è che Michels è affetto da una sorta di “psicopatologia dell’idealismo politico” che si esprime in un fondamentalismo democratico per cui o la democrazia si attua nella sua forma più pura, oppure non ha alcun senso parlarne.
La sua è un’opera di demistificazione ideologica e di denuncia nei confronti del sistema rappresentativo basato sulla ratio della scheda elettorale. E questo perché egli continua a ragionare nei termini di una logica antisistema e rivoluzionaria; il mercato elettorale e l’impresa competitiva schumpeteriana gli appaiono come un sovvertimento della stessa politica, operanti in una dimensione che fagocita i partiti rivoluzionari medesimi, non più ispirati rousseauianamente al perseguimento del bene collettivo, ma votati all’amalgamarsi con l’élite al potere per spartirsi con essa il dominio sulle masse. Il suo è un disprezzo per una politica che si serve di “pure e semplici macchine per la coltura dei voti”.35 Potremmo quindi affermare che “…da un lato c’è lo sguardo disincantato del realista e dall’altro, appena celato, lo sguardo scandalizzato del fondamentalista.”36
La Sociologia svolge un mastodontico ragionamento sulla natura dell’impresa politica moderna e sul ruolo che in essa vi hanno i partiti; essa è però fondamentalmente un’indagine critica sulla democrazia. Anche la sua concezione del partito è estremamente rigida; il suo modello è la SPD, un partito chiuso, ideologico, quando invece la caratteristica principale dei partiti moderni è quella di essere aperti, unica loro configurazione possibile qualora vogliano attrarre masse trasversali in un sistema a suffragio universale.
E’ tra il 1904 e il 1906 che Michels comincia ad individuare nel partito socialista tedesco una pericolosa parabola degenerativa notandone due aspetti fondamentali: in primo luogo, un progressivo “imborghesimento”, che determina la “de-proletarizzazione” di una parte del proletariato (spesso la migliore); in seconda istanza, la crisi diviene irreversibile con l’attuarsi del secondo e più grave processo degenerativo: la trasformazione di un’organizzazione finalizzata alla creazione di un ordine socio-economico nuovo in un’organizzazione il cui unico scopo diviene l’autoconservazione, scevra da qualsiasi fine ideale. Assorbito da una logica conservatrice, il partito perde la sua purezza dottrinale e la percezione dello scopo finale, assimilandosi ai meccanismi del sistema contro cui dovrebbe lottare; dal partito militante si passa al partito macchina.
Il paradosso sta nel fatto che il socialismo, in qualità di movimento antisistema, non può perseguire i suoi scopi adottando meccanismi e strumenti organici al sistema stesso quali il ciclo elettorale e la rappresentanza parlamentare37. In un certo senso, il parlamentarismo uccide il socialismo nella misura in cui quest’ultimo si presenta come movimento antilegalitario. Di fatto, alla logica del sovvertimento e della lotta contro l’avversario, si sostituisce la logica borghese di una competizione tra partiti sul piano del mercato elettorale. Su questa patologia si consolida quell’inarrestabile tendenza all’oligarchia che costituisce il tema di fondo della Soziologie des Parteiwesens.
Michels presenta subito la tesi che svolgerà nel resto dell’opera affermando come “…la forma democratica esteriore alla base della vita dei partiti politici trae però facilmente in inganno gli osservatori superficiali che non sanno vedere la tendenza alla aristocrazia o più precisamente alla oligarchia cui ogni organizzazione di partito soggiace.”38
Come Michels dimostrerà, “ il presentarsi di simili tendenze anche in seno ai partiti rivoluzionari documenta quindi in modo del tutto inoppugnabile che in ogni organizzazione umana di carattere strumentale (Zweckorganisation) sono immanenti tratti oligarchici.”39 Egli osserva come tutti coloro i quali agiscono nella vita pubblica si travestano da difensori del popolo, della sua volontà, della democrazia, in chiave etica e morale. “Governi e ribelli, re e capi partito, tiranni per grazia di Dio e usurpatori, arrabbiati idealisti e ambiziosi oculati, tutti sono «il popolo» e affermano di voler eseguire con la loro opera solo la volontà del popolo.”40
Le democrazie sono caratterizzate quindi da un esasperato verbalismo che si traduce nell’auto-rappresentazione delle forze politiche come forze liberatrici dal giogo di una minoranza tirannica. La retorica democratica è intessuta di metafore e demagogia atte a manifestare sempre un’accesa e commossa partecipazione emotiva per i dolori del popolo e per i suoi bisogni. Il motto di ogni nuova classe di politicanti che si getta nella mischia della politica è : “Liberazione di tutto il genere umano!”.
Lo stesso concetto di partito implica quello di limitazione; “Partito significa separazione, distinzione; pars, non totum.” Altri fattori entrano in campo, prosegue Michels, quali “…la forza del numero, l’aspirazione, propria di ogni partito, a diventare Stato, il sorgere di una «legge dello sconfinamento», per cui il partito tende ad espandersi al di là della sfera sociale originariamente assegnatagli o conquistata con il suo programma fondamentale.”41
L’opera michelsiana entra nel vivo della sua trattazione occupandosi dell’eziologia della leadership, della sua organizzazione, della sua supremazia, del rapporto psicologico che si instaura tra essa e le masse e della sua composizione sociale, tematiche già affrontate e in parte analizzate nei saggi precedentemente rivisitati.
“La democrazia non è concepibile senza organizzazione.”42 E’ l’organizzazione stessa che determina una separazione tra una minoranza dirigente ed una maggioranza diretta, spianando la strada al formarsi di una gerarchia e quindi dell’oligarchia. Volendo fornire una definizione di organizzazione potremmo parlarne come di “…un raggruppamento sociale deliberatamente costruito per il raggiungimento di fini specifici”43. Ora, in vista del conseguimento di determinati obiettivi, la peculiarità di ogni struttura organizzativa è la divisione interna dei compiti, base per il successivo processo di monopolizzazione delle competenze da parte di una ristretta cerchia di capi specializzati e professionali. “Chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia.”44
L’autogoverno delle masse è ovviamente impedito da motivi tecnico-funzionali. Anche la più ortodossa assemblea popolare non potrebbe fare a meno di istituire un gruppo che stabilisca un ordine del giorno; il che presuppone dunque delle autorità con un qualche potere decisionale. A decretare l’inabilità della democrazia diretta a prendere risoluzioni per tutta la comunità è in primo luogo il fattore numerico, motivo che decreta, per converso, l’efficacia di quella indiretta.
Dalla disamina di tutti gli inconvenienti di ordine pratico e tecnico-amministrativo cui si andrebbe incontro cercando di attuare un processo decisionale “di massa” si deduce l’assoluta necessità ed indispensabilità di una leadership. Il problema è che i dirigenti, all’inizio presentati come gli organi esecutivi della “volontà popolare”, diventano rapidamente indipendenti, emancipandosi da essa in virtù delle capacità e delle conoscenze acquisite “sul campo”, divenendo fatalmente indispensabili e potenzialmente inamovibili.
Insomma, la partecipazione come autogoverno, consistente in un’emanazione quanto più diretta possibile della volontà popolare per determinare la vita del gruppo, appare a Michels come un estremo teorico che nella realtà non troverà mai applicazione45. Realisticamente, ciò che è attuabile è solo un grado ridotto di partecipazione, assicurabile tramite l’istituto della rappresentanza, la quale però tenderà a cristallizzarsi nel tempo trasformandosi in “dominio dei rappresentanti sui rappresentati.”46
Si deve aggiungere che il numero dei cittadini aventi diritti politici che sono animati da un effettivo ed attivo interesse per la politica appare piuttosto esiguo. La partecipazione è bassa tanto a livello statale quanto a livello partitico, e questo è un processo assolutamente fisiologico. In effetti, anche per quanto concerne le decisioni di partito, ad esse contribuisce un’esigua minoranza, un “pugno di membri”. “La maggioranza degli organizzatori ha nei confronti dell’organizzazione la stessa indifferenza della maggioranza degli elettori nei confronti del parlamento.”47
D’altronde, gli stessi Kautsky e Bernstein (e soprattutto quest’ultimo) pensavano che l’uomo medio non avesse la competenza politica adatta a giustificare e a legittimare la sovranità assoluta del popolo. In fin dei conti, socialdemocrazia non significa “tutto per mezzo del popolo, ma solo: tutto per il popolo.”48
Specializzazione significa autorità; “…come si obbedisce al medico, perché in virtù di lunghi studi conosce il corpo umano meglio del paziente stesso, in egual modo il paziente politico deve rimettersi al suo leader, il quale possiede la competenza politica, che a lui per forza difetta.”49
Michels ritiene che il sorgere di una leadership professionale segni inevitabilmente l’inizio della fine della democrazia. Una massa che deleghi la sua sovranità, come ci ricorda Rousseau, vi rinuncia poiché il volere del popolo non è trasferibile, così come quello del singolo. “Voler sostenere che un governo rappresenta l’opinione pubblica e il volere della nazione, significherebbe perciò prendere semplicemente partem pro toto: «La delegazione è un assurdo».”50Il destino di qualsiasi potere proveniente dal popolo ed ergentesi su di esso è l’emancipazione del potere medesimo dalla sovranità popolare.
La realtà è che, una volta concluse le operazioni elettorali, le masse perdono ogni potere sui loro delegati. Siamo di fronte ad un durissimo attacco alla democrazia parlamentare-rappresentativa.
I risultati di queste analisi, agli occhi di Michels, sono la prova inconfutabile che “…l’evoluzione naturale e normale dell’organizzazione imprimerà sempre il marchio di un indelebile carattere conservatore anche ai partiti più rivoluzionari.”51
I leaders tendono ad isolarsi, a garantirsi reciprocamente il dominio tramite “patti difensivi”; si trasformano in caste chiuse, nelle quali l’accesso è consentito dal sistema della cooptazione. All’interno dei partiti, il dominio dei leaders appare talmente incontrastato da rendere decisamente impervio il cammino che i nuovi aspiranti leaders devono percorrere per raggiungere il potere. In effetti, per Michels non si assiste ad una vera e propria sostituzione secondo i canoni paretiani (Pareto aveva utilizzato l’espressione circulation des élites), ma ad una fusion des élites. Tuttavia, una volta raggiunta la loro meta si attua in loro una trasformazione che li rende non dissimili, nella sostanza, dai vecchi leaders ormai spodestati. “I rivoluzionari del presente sono i reazionari del futuro.”52
Egli appare convinto che, a lungo andare, la funzione di guida delle masse eserciti un’influenza negativa sul carattere morale dei leaders. Gli ideali della giovinezza lasciano il posto a nuove conoscenze acquisite che spesso contrastano con l’originaria ideologia. Molti capi, pur continuando a professarsi socialisti e rimanendo nominalmente tali, non lo sono più nel loro animo, lasciando spazio all’opportunismo e all’egoismo e soggiacendo alla libidine del potere.
Molto critico nei confronti del concetto di sovranità popolare utilizzato come arma demagogica, Michels ricorda che lo stesso cesarismo di Napoleone III si fondò sul principio della sovranità popolare. Il nipote del suo più celebre omonimo affermò molto abilmente di considerarsi strumento e creatura della massa. “Il Bonapartismo riconosce la volontà popolare in modo tanto illimitato da concederle perfino il diritto al suicidio. Il principio della sovranità popolare ha la sua completa esplicazione nel diritto di abolire se stessa.”53 E’ un principio addirittura pericoloso, in quanto, una volta uscito dall’urna elettorale, l’eletto si sente in diritto di personificare il popolo credendo di non poter essere più contrastato in alcun modo ed interpretando ogni opposizione che gli venga fatta come antidemocratica.
Michels ritiene che i moderni partiti e sindacati democratico-rivoluzionari presentino dei caratteri simili a quelli appena descritti. “Il Bonapartismo ha sempre buone probabilità di successo presso le folle imbevute di sentimenti democratici perché le lascia nell’illusione di rimanere padrone dei propri padroni.”54 Con il plebiscito, la collettività si sottomette al proprio volere, o almeno pensa che sia così. “Nella democrazia, la leadership fonda il suo diritto al comando sulla finzione della onnipotenza democratica delle masse.”55
Secondo Michels, nella democrazia come in qualunque altro regime, il successo e la conseguente conquista del potere conducono alla morte dell’idealismo; il socialismo che accede al governo non sfugge a questa regola e l’idealismo appena citato si disperde tra la vanità e la respectability borghese. Per un operaio “sazio”, vale a dire conscio di aver raggiunto l’obiettivo del miglioramento della propria condizione sociale, quale interesse potrebbe più avere il vecchio dogma della rivoluzione? La sua rivoluzione è già compiuta. Socialismo, sindacalismo rivoluzionario, anarchismo; agli occhi di Michels tre concezioni della società fondate su basi ideali eticamente nobili e condivisibili, ma destinate al naufragio di fronte agli scogli della pratica politica quotidiana e delle inclinazioni degenerative della stessa natura umana. Pessimistica rimane infatti la considerazione sulle reali potenzialità del cambiamento nelle mani dei partiti di sinistra in quanto la “partecipazione al potere rende conservatori coloro che vi sono giunti.”56
Il partito diviene un tassello di una semplice e “legalitaria” opposizione costituzionale, pur continuando ad agghindarsi con una retorica rivoluzionaria. In poche parole, il partito rivoluzionario fa concorrenza ai partiti borghesi per la conquista del potere e tutto ciò è quanto di più lontano vi sia da una corretta interpretazione del marxismo. Contrariamente alle scuole socialiste, ancora fiduciose nella possibilità di realizzare un autentico ordinamento democratico, Michels fa ormai aperta professione di fede nell’elitismo, citando ampiamente Mosca e Pareto, e giudicando la democrazia ideale una fiaba per bambini; il risultato di qualunque lotta di classe si risolve in un mero scambio tramite cui una minoranza si fonde e si amalgama con quella precedente con lo scopo di dominare le masse.
I fenomeni sociologici delineati da Michels mettono chiaramente in luce come sia impossibile l’esistenza di una società civile senza una classe dominante. Michels denota un legame, e non un’opposizione, tra la concezione storico-materialistica d’impostazione marxista e la teoria elitista. La prima concepisce la storia come un susseguirsi ininterrotto di lotte di classe; la seconda vi aggiunge la conclusione secondo cui lo sbocco di suddette lotte è lo sfociare sempre e comunque nella creazione di una nuova oligarchia che si amalgama con la vecchia. “La storia sembra insegnarci che nessun movimento popolare, per quanto forte ed energico, può apportare mutamenti duraturi e organici alla struttura sociale della civiltà, poiché gli elementi più importanti del movimento stesso, gli uomini cioè che lo guidano, gradualmente si vengono sempre più separando dalle masse, per essere assorbiti dalla «classe politica».”57
In questa prospettiva, i socialisti potrebbero anche vincere, ma il socialismo mai; si tratta di una tragicommedia nella quale le masse, dopo tanti sforzi compiuti per emanciparsi, si ritrovano semplicemente a cambiare un padrone con un altro.
In conclusione, il sorgere di una leadership risulta essere fenomeno organico di qualsiasi gruppo sociale, ed ogni sistema che preveda dei capi è incompatibile con i postulati essenziali della democrazia. Michels tiene molto a sottolineare quanto la legge della necessità storica dell’oligarchia da lui messa in evidenza poggi su dati forniti dall’esperienza. In qualunque relazione sociale la natura stessa crea rapporti di dominio e di dipendenza, persino nelle organizzazioni socialiste e libertarie.
Il problema, e qui Michels sembra prefigurare le linee di fondo degli studi novecenteschi sulla democrazia superando la sua impostazione “catastrofista”, riguarda non tanto il modo tramite cui poter realizzare la democrazia ideale, quanto quale grado di democrazia sia effettivamente possibile. In ogni caso, Michels ritiene quale compito precipuo dei democratici quello di coltivare e rafforzare la tendenza alla critica e di combattere l’oligarchia nonostante la sua inevitabilità; una visione dei suoi pericoli infatti, lungi dall’eliminarla, potrebbe consentire di tenerla almeno “sotto osservazione”.
1.3 Il concetto michelsiano di democrazia
La democrazia auspicata da Michels e della quale egli dimostra l’impossibilità logica e storica è quella classica, intesa in senso etimologico come un sistema che prevede l’abolizione di capi e di ogni dominio, configurandosi come la forma pura del “governo del popolo”.
La sua concezione si riallaccia strettamente alla teoria rousseauiana della “volontà generale”, mirante ad affermare un regime di legislazione diretta del popolo. “L’autogoverno delle masse consiste nel tentativo di un’emanazione quanto più diretta possibile della volontà popolare per determinare la vita del gruppo e quindi in un superamento quanto più completo possibile della leadership.”58 Egli aggiunge che questo tipo di regime, basato sulle deliberazioni delle assemblee popolari, rappresenta il modello per l’ideale democratico.
E’ chiaro che, scegliendo come campo d’indagine il partito, Michels abbandona il terreno della democrazia pura e s’inoltra su quello della democrazia reale caratterizzante le logiche dei moderni Stati di massa; una democrazia realizzata, ma falsa, mistificata dal sistema rappresentativo-parlamentare avente alla base un regime di suffragio universale.
L’obiettivo di Michels consiste nel dimostrare che la democrazia rousseauiana, concepita come esercizio della volontà generale da parte del corpo politico, è assolutamente irrealizzabile, nel tempo presente come in quello futuro. “La democrazia pura, ideale e originaria è destinata nella migliore delle ipotesi a rimanere prigioniera di un improbabile iperuranio delle buone intenzioni: è semplicemente irrealizzabile, impossibile.”59 Le democrazie reali sono invece intimamente pervase da tendenze oligarchiche, fondate come sono sul principio rappresentativo e sui meccanismi del ciclo elettorale; esse sono perciò false democrazie al fondo delle quali Michels scorge un unico principio regolatore: la “legge ferrea dell’oligarchia”.
Le democrazie reali sono solo, moschianamente parlando, delle “formule politiche”; sistemi in cui il servitore del popolo (l’eletto) ne diviene facilmente padrone con l’ausilio dei meccanismi fisiologici che si attivano sul terreno dell’organizzazione.
Il punto focale della discussione consiste nel fatto che Michels accetta senza riserve il presupposto rousseauiano secondo cui un sistema politico basato sulla rappresentanza non possa dirsi democratico. Questo nodo del problema è stato affrontato e risolto da gran parte della scienza politica moderna. Tuttavia, è lo stesso Michels a rendersi conto che il problema della democrazia deve essere inteso come un problema di “gradi” e che l’intento della sua ricerca è consistito nel mostrare entro quali limiti la democrazia sia un ideale che nella storia non potrà mai avere applicazione se non come criterio etico per misurare il grado di oligarchia immanente ad ogni assetto sociale.
Oggi la maggior parte degli esperti ritiene che, perché si possa parlare di democrazia, sia sufficiente che i singoli cittadini, ai quali per ovvie ragioni è impedito di partecipare in massa al governo diretto, abbiano la possibilità di esprimere la propria volontà attraverso il processo elettorale. Una società, cioè, può essere democratica ed al contempo essere espressione di una leadership ristretta; è un concetto riduttivo della democrazia che Michels non avrebbe mai potuto accettare. In quest’ottica appare ovvio come la concezione democratica concepita da un Rousseau, per intenderci, sia semplicemente un sogno, essendo in palese contrasto con la natura umana e con le necessità immanenti di qualsiasi organizzazione politica. Qui giochiamo sul terreno “fondamentalista” di quelle dottrine religiose e politiche le quali presuppongono, per la loro integrale applicazione, una perfezione morale che l’umanità non potrà ragionevolmente mai avere.
Al di là di tali considerazioni, rimane il fatto che il giudizio di Michels, pur ammettendo che “…entro certi limiti, anche il partito democratico retto oligarchicamente può senza dubbio influire in senso democratico sullo Stato”60, resta fatalmente pessimistico (tanto da estendere le conclusioni antidemocratiche evidenziate dall’analisi delle strutture interne dei partiti allo Stato nel suo complesso).
Ciò che lo irrita è lo stesso sistema elettorale, che per lui implica una riformulazione del principio democratico in termini liberisti più ancora che liberali; egli non può concepire una politica ridotta alla stregua di un mercato dei voti, dove la sovranità degli elettori si compra. Una democrazia ridotta a questo, e cioè a mera concorrenza di élites per la ricerca del consenso, gli doveva apparire come un qualcosa di ben misero e vuoto. Per questo, il paradosso a cui giunse fu proprio quello di condannare la democrazia reale in nome di un ideale di democrazia che non avrebbe mai potuto trovare attuazione; o tutto o nulla, niente compromessi. “L’ideale condannato in nome della realtà, la realtà condannata in nome dell’ideale: ma appunto perché si trattava di un ideale degno di essere perseguito nonostante la sua irraggiungibilità.”61
Si potrebbe quasi dire che per Michels la democrazia sia come Dio, che o c’è, ed è Dio, o non c’è; su questo palcoscenico egli veste decisamente i panni di un credente che ha perso la propria fede, di un “prete spretato”. Per lui non vale la pena di perseguire una democrazia parziale, ed in ciò è ravvisabile una contraddizione allorché, in un passo finale della Sociologia, così si esprime: “Il compito del singolo dovrà essere dunque simile a quello di colui che ricevette dal padre morente l’indicazione di un tesoro sepolto; non il tesoro, che non si trova, ma il lavoro dedicato alla sua ricerca renderà fertile il campo.”62
Per Michels, la democrazia autentica non può certo ridursi al “metodo democratico”; in tal caso la forma, l’apparenza, nasconderebbe sempre l’assenza di sostanza, essendo semplicemente un processo procedurale regolato e basato sullo strumento fittizio della scheda elettorale. Egli è irrimediabilmente ostile e sospettoso nei confronti della democrazia apparente del suffragio universale e della rappresentanza parlamentare. “La storia del secolo Decimonono – scrive – è stata contrassegnata dal suffragio universale. […] Così la massa salì sulla scena del parlamento, rappresentata dai suoi legittimi delegati. E così ebbe origine una grande superstizione politica. Quale essa sia, è stato espresso, con parole efficaci, da Spencer: «The great political superstition of the present is the divine right of parliaments. The oil of anointing seems unawares to have dripped from the head of the one on to the heads of the many and gives sacredness to them also and to their decress.»63
Ciò che non possiamo tralasciare di considerare sono però le conseguenze cui Michels perviene a seguito delle sue riflessioni e che potremmo definire come il paradosso antidemocratico della democrazia. La democrazia “elezionistica” è una forma degenerata della politica in quanto fondata sul principio del “massimo numerico” che trasforma i partiti in macchine “pigliatutto”, perdendo purezza ideologica e dottrinaria.64
Per molti studiosi, contrariamente a Mosca, Michels svolge coerentemente la trama della dottrina elitistica fino alle sue estreme conseguenze, approdando logicamente al fascismo. Costoro ritengono che quest’ultimo non sarebbe altro che l’elitismo che si fa prassi, la scienza che diventa cosa. Attraverso l’immagine del duce, Michels arriva a codificare il concetto paradossale ed antinomico di una “antidemocrazia democratica”; se il sistema rappresentativo-parlamentare è falso ed ingannevole, Michels gli preferisce il rapporto diretto e schietto tra il duce e le masse, senza alcuna fittizia mediazione.
E’ però evidente che, così facendo, egli uccide la democrazia per troppo amore di essa, gettandola nel precipizio della dittatura. Ciò che per lui conta veramente è un rapporto sincero ed immediato tra il potere e le masse, un rapporto che si esplica nell’acclamazione e nella professione di fede delle masse ad un duce che ne accoglie gli “umori” da un balcone. La massa, in questo modo, risorge a nuova vita divenendo co-protagonista del potere, attraverso una sorta di adesione morale e spirituale al duce.
Michels è abbagliato dall’illusione ottica che una democrazia più autentica possa scaturire da un contatto emozionale tra duce e masse; pur restando lontana dal modello della democrazia ideale, la «democrazia fascista» “…dovette apparirgli senz’altro molto più vicina al modello di quanto non lo fosse la falsa democrazia dei numeri, dei partiti pigliatutto e dei tortuosi intrighi di palazzo. Tra il «paradosso antidemocratico della democrazia» e quello «democratico dell’antidemocrazia» Michels doveva scegliere il secondo e trarne quindi delle conseguenze che Mosca – come Weber – non avrebbe mai tratto.”65
Il paradosso è tutto qui; la diffidenza in lui tanto radicata nei confronti della democrazia dei partiti e dei parlamenti non gli permise di comprendere che l’affidare i destini della democrazia ad un rapporto populista tra capo e masse significava azzerarla definitivamente, consegnando le masse stesse alla tirannide, ancor più lontana da quella democrazia ideale di quanto non lo fossero le democrazie reali.
Del resto, Michels porta alle estreme conseguenze quella tendenza definita di “democrazia totalitaria” (di destra o di sinistra non importa) il cui capostipite è ravvisato da molti proprio in Rousseau, reo di aver affermato, nell’ambito del discorso sulla volontà generale, che il bene comune non è percepibile dalla maggioranza, ragion per cui deve essere necessariamente un’avanguardia illuminata a rendere intelligibile la verità al resto del popolo conducendolo verso l’affermazione di una volontà che, aggiungiamo noi, non sembra neanche sapere di avere66 (giacobinismo docet).
1.4 Un bilancio di un autore discusso
Robert Michels è un autore che, a causa della sua militanza socialista prima e fascista poi, non ha goduto spesso della considerazione appropriata e la sua opera è stata riposta per questo nel dimenticatoio. Tra gli elitisti potremmo quasi considerarlo il più elitista in virtù del fatto che il suo teorema fondamentalistico della sovranità popolare si capovolge nel teorema fondamentalistico della classe politica. Proprio per questo egli fu il più machiavellico dei Machiavellians67; se, infatti, per Mosca, Pareto e Weber la classe politica era considerata elemento fisiologico di ogni gruppo sociale, un elemento però in movimento e soggetto ad un continuo ricambio “democratico”, in Michels la classe politica stessa è il problema; che vi sia ricambio è irrilevante.
Molte sono state le critiche avanzate nei confronti dell’estremismo teorico michelsiano. Tra le altre cose, ciò che spesso gli si rimprovera è di aver scambiato una legge storica per una legge sociologica, accettando i risultati della sua esperienza come un qualcosa di “naturale” ed immutabile, valido per qualsiasi tempo storico e per qualsiasi contesto sociale. In realtà, su questo punto, possiamo ricordare come Curcio affermi che per Michels non esistono “…leggi assolute, dottrine certe, se non con qualche limite. Repugnante alle pregiudiziali rigide, egli rigetta le teorie deterministiche, materialistiche, naturalistiche, che contrastano con la esigenza prevalentemente storicistica del suo temperamento.”68
Le critiche più dure sono piovute certamente dagli ambienti di sinistra. Paradigmatica è la posizione di Gramsci, ostile all’elitismo a priori perché incompatibile con il suo progetto di fare del partito la guida responsabile e democratica delle masse lavoratrici. Il partito gramsciano doveva essere il nuovo Principe di nobile ascendenza machiavelliana. La teoria delle élites e la legge ferrea dell’oligarchia michelsiana costituivano un pericolo mortale nell’orizzonte di questo progetto.
In primo luogo, per Gramsci, il problema dell’organizzazione è un non problema in quanto essa si inserisce in un sistema da lui definito “centralismo democratico”; il partito ha bisogno di disciplina per raggiungere i suoi obiettivi e il problema non è tanto quello di avere democrazia nel partito, ma nella società nel suo complesso. Quasi astioso nei confronti di Michels, gli rimprovera l’assenza di una solida metodologia e uno “scetticismo da salotto o da caffè reazionario”69. L’obiezione di base che Gramsci adotta nei confronti dell’empirismo michelsiano è concentrata nella formula di “generalizzazione tautologica”. Scrive Bettoni: “…la generalizzazione tautologica si definisce, pertanto, secondo il seguente procedimento: a) descrizione del fatto o dei fatti; b) processo meccanico di generalizzazione astratta; da cui c) deriva un rapporto di somiglianza al quale si attribuisce il valore di legge; d) assunzione di questa come fondamento causativo.”70
Siamo di fronte ad una sorta di platonismo; Gramsci ritiene che le leggi astratte ricavate da Michels assomiglino alle idee pure di Platone.
Duri attacchi vengono portati anche nei confronti della nozione di capo carismatico, da Gramsci considerata come una figura espressione di una “demagogia deteriore”, la quale si serve delle masse, opportunamente manipolate, per i propri fini e per le proprie ambizioni. Dal punto di vista etico, Gramsci giustifica solo la “grande” ambizione, il cui fine ultimo è l’emancipazione di una classe. Il principio del carisma, ed in questo ravvisiamo un che di “weberiano”, caratterizza una fase pre-politica, in cui la dottrina è palesata alle masse come un dogma il cui interprete è un papa infallibile, il capo carismatico appunto.
La vera azione politica si attua per Gramsci solo nel partito; è questo lo strumento che media il rapporto tra capo e masse e che non fa perdere di vista al leader il vero protagonista della lotta politica: non il capo né il partito, ma la massa in qualità di soggetto storico, di classe sociale determinata.
Una posizione certamente più equilibrata e super partes è quella di Sartori71. Egli ritiene che il problema posto da Michels circa la pseudo-democraticità dei partiti politici sia un argomento molto serio, ma rimprovera allo studioso italo-tedesco di aver fatto confusione in primo luogo tra la dimensione burocratica e quella più propriamente politica. Un sistema burocratico, di per sé, non è e non ha mai preteso di essere un sistema democratico. Occorre dunque distinguere tra capi politici e personale tecnico-amministrativo.
Per Sartori democrazia e burocrazia possono coesistere senza alcun problema perché una struttura burocratica può essere diretta da capi democratici. Per questo motivo, il politologo italiano tende a riformulare la teoria michelsiana scomponendola in due leggi separate e distinte: la legge ferrea della burocratizzazione e la legge “bronzea” dell’oligarchia, quest’ultima derivante dall’apatia politica del comune cittadino. Tuttavia, egli deve riconoscere che, per quanto sommaria, la teoria di Michels si rivela spesso esatta. Chi si interroga sull’effettiva partecipazione politica dell’individuo medio nella società moderna scoprirà in effetti la sua non partecipazione (dati statistici confermano tale asserzione). In effetti, quasi la totalità dei cittadini aventi diritti politici, pur non essendo necessariamente indifferente, è politicamente inerte.
Detto questo, Sartori cerca però di separare due ordini diversi di problemi: quello della democrazia nei partiti e quello della democrazia interpartitica.
Relativamente al primo, egli ritiene una società democratica perfettamente compatibile con una leadership di pochi capi (Michels vedeva invece oligarchia ovunque vi fosse un sistema di capi). Il punto focale è capire se tale leadership sia affidabile e responsabile. Circa la questione dell’inamovibilità dei capi poi, quest’ultima può risultare dal fatto che essi soddisfino gli elettori, i quali continuano ad eleggerli mantenendoli in carica. “E dunque, – scrive Sartori – quel che davvero fa la differenza tra democrazia e no, non è la velocità di rotazione dei capi, ma il fatto che nel primo caso un leader deve agire in modo da non perdere il posto alla elezione successiva. Insomma, quel che davvero importa non è che i capi vengano sostituiti, ma che essi possano venir sostituiti.”72
Il centralismo dei partiti e dei sindacati è per certi aspetti persino auspicabile. Infatti, “…non si può rimettere tutto in discussione per mille volte, e tutte le volte. Che è quel che potrebbe accadere se la vita delle sezioni fosse così viva e autonoma come alcuni auspicano, e se venisse meno la deprecata centralizzazione. I partiti devono trattare con altri partiti, così come (e ancor di più) i sindacati devono trattare con i datori di lavoro. E per trattare occorre un contraente che risponda dei propri associati. Se le trattative venissero condotte alla periferia, non si finirebbe mai di trattare, e – quel che è peggio – si rischia di non arrivare mai ad un accordo generale.”73
L’errore di Michels, osserva Sartori, è che egli cercava la democrazia dov’era più difficile trovarla: nell’organizzazione, la quale ha finalità funzionali, non democratiche.
Sul secondo punto, quello della democrazia interpartitica, Sartori osserva che “…in un sistema pluripartitico, i partiti si disputano i voti dell’elettorato in concorrenza tra di loro, e quindi la forza e la stessa vita di un partito dipende dalla sua capacità di soddisfare in qualche modo l’elettorato al quale si rivolge. Questo significa che la sorte delle minoranze «organizzate» dei politicamente attivi dipende dalla maggioranza «non organizzata» dei politicamente inerti.”74 Come a dire che è il mercato politico stesso che attribuisce il potere al popolo. La democrazia non la troviamo dentro i partiti, insomma, ma nella concorrenza tra essi. Michels, in definitiva, è romanticamente legato ad un concetto di democrazia che Sartori definisce “faccia a faccia”, una democrazia in piccolo che non regge alla prova dell’aumento di scala.
Risulta chiaro, in sostanza, come su un punto vi sia la convergenza di molti critici michelsiani: l’esistenza di una leadership ed in particolare di una leadership professionale non è sempre incompatibile con la democrazia, salvo definire quest’ultima nei termini di una democrazia diretta.
La lezione della Sociologia è una lezione scomoda e spesso è invalsa l’usanza di giudicare buona o cattiva la tesi del libro a seconda dell’etichetta data al suo autore e sulla base di riserve mentali e di pregiudizi ideologici.
Figura assai complessa e sfaccettata, eclettico e fervente studioso, Michels è stato spesso interpretato attraverso la categoria della delusione, ma sarebbe forse più opportuno servirsi della categoria della disillusione. Nel primo caso, infatti, si commetterebbe l’errore di giudicare implicitamente la sua opera come il frutto di uno stato d’animo emotivo quando invece essa è il frutto maturo di un’esperienza che lo ha condotto a prendere definitivamente coscienza della realtà.
Michels ha l’innegabile merito, tuttora valido, di avere dimostrato e posto il problema dell’irrimediabile carattere oligarchico dei partiti di sinistra75, ideologicamente orientati all’emancipazione democratica; molte delle sue tesi più pessimistiche si sono rivelate verità effettuali. Egli è stato per molti aspetti un preveggente; è lui che, ante factum, ha imbastito la più sferzante critica dei partiti comunisti e della stessa concezione leninista del partito, prima che entrambe le realtà divenissero tali. Alla luce di ciò appare inaccettabile il fatto che tutte le varie culture di partito lo abbiano unanimemente snobbato.
“Si potrà dire – con Norberto Bobbio – che il sostenere la tesi del governo della minoranza, è una banalità. Eppure è una di quelle banalità che vengono volentieri dimenticate.”76 Rileggere oggi l’opera di Michels può essere quindi un ottimo antidoto contro quell’apatia e quella mancanza di coscienza critica nel nostro tempo così imperanti.
Davide Parascandolo
1 Cfr. P. Ferraris, “Roberto Michels politico (1901-1907)”, Quaderni dell’Istituto di Studi economici e sociali della Facoltà di Giurisprudenza di Camerino, I, (1982) : 57-69.
2 Da segnalare che su questo punto lo stesso Ferraris non si dice d’accordo, ritenendo Michels soprattutto un socialdemocratico tedesco della II Internazionale (P. Ferraris, cit., pp. 54-55).
3 Critica favorita proprio dall’incontro con il sindacalismo francese ed italiano, ostile verso le tendenze opportunistiche, parlamentari e legalitarie della socialdemocrazia.
4 G.M. Bravo, “Michels e il marxismo”, in G.B. Furiozzi, Roberto Michels tra politica e sociologia, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1984, p. 28.
5 Una trasformazione in un partito di opposizione costituzionale giudicata invece positivamente da Weber.
6 R. Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Bologna, Il Mulino, 1966, p. 495.
7 R. Michels, “Violenza e legalitarismo come fattori della tattica socialista”, Il Divenire sociale, I, (1905) : 25-27.
8 Ibidem, p. 371.
9 Cfr. G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista, vol. III, P. 1°, Bari, 1968, p. 459, da G.B. Furiozzi, op. cit., p. 12.
10 Comincia tuttavia a farsi strada il problema dell’organizzazione e della rappresentanza anche all’interno del sindacato, fonte di gerarchizzazione ed imborghesimento.
11 R. Michels, “La crisi psicologica del socialismo”, p. 371.
12 M. Bakunin, Stato e anarchia, Milano, Feltrinelli, 2008, pp. 22-23.
13 L’Austria annette la Bosnia-Erzegovina e nel 1910 nascerà in Italia l’Associazione nazionalista italiana.
14 Anche se Michels preferirà parlare nella Sociologia di fusione più che di circolazione delle élites.
15 Ibidem, p. 962.
16 Ibidem.
17 Ibidem, pp. 962-63.
18 Ibidem, p. 968.
19 Ibidem, p. 972.
20 Ibidem, p. 975.
21 Ibidem, p. 982.
22 Ibidem, p. 262.
23 Ibidem.
24 Ibidem, p. 263.
25 Ibidem, p. 264.
26 Ibidem, p. 265.
27 Ibidem, p. 269.
28 L’attenzione per le cause di ordine psicologico trae influenza dall’impostazione sociologica elitista (si pensi primariamente a Pareto) e, da questo punto di vista, Michels si distacca decisamente dalle valutazioni meramente di natura economicistica di stampo marxista.
29 Ibidem, p. 271.
30 Ibidem, p. 279.
31 Ibidem, p. 283.
32 Per una definizione di legge e di tendenza cfr. G. Sola, Organizzazione, partito e legge ferrea dell’oligarchia in Roberto Michels, Genova, E.C.I.G., 1975, pp. 27-38.
33 F. Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna. Max Weber e Robert Michels, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 256.
34 Ibidem, p. 257.
35 Ibidem, p. 267.
36 Ibidem, p. 269.
37 Ibidem, pp. 94-95 e seg.
38 Ibidem, p. 39.
39 Ibidem, p. 40.
40 Ibidem, p. 45.
41 Ibidem, pp. 49-50.
42 Ibidem, p. 55.
43 Ibidem, p. 47.
44 R. Michels, Sociologia, p. 56.
45 E’ interessante, a tal proposito, menzionare quelle che Dahl ha definito “le dimensioni della partecipazione”, identificate nell’interesse, nella preoccupazione, nell’informazione e nell’attività (R.A. Dahl, Introduzione alla scienza politica, Bologna, 1967, p. 95, da G. Sola, op. cit., p. 203).
46 R. Michels, Sociologia, p. 194.
47 Ibidem, p. 85.
48 Ibidem, p. 136.
49 Ibidem, p. 137.
50 Ibidem, p. 191.
51 Ibidem, p. 230.
52 Ibidem, p. 277.
53 Ibidem, p. 294.
54 Ibidem, p. 299.
55 Ibidem, p. 301.
56 Ibidem, p. 486.
57 Ibidem, p. 520.
58 Ibidem, p. 58.
59 F. Tuccari, I dilemmi della democrazia moderna. Max Weber e Robert Michels, p. 233.
60 R. Michels, Sociologia, p. 485.
61 E. Ripepe, “Roberto Michels, oggi”, in R. Faucci (a cura di), Roberto Michels: economia, sociologia, politica, Torino, Giappichelli Editore, 1989, pp. 18-19.
62 Sociologia, p. 531.
63 R. Michels, Corso di sociologia politica, pp. 97-99 (la citazione è ripresa da H. Spencer, The Man versus the State, London, Watts, 1914, p. 66).
64 F. Tuccari, op. cit., p. 325.
65 Ibidem, p. 337.
66 Per un interessante approfondimento del problema si rinvia al capitolo III, “La democrazia totalitaria (Rousseau)” del libro di J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, Il Mulino, 2000.
67 Titolo di un’opera di J. Burnham, The Machiavellians, trad. it., I difensori della libertà, Milano, Mondadori, 1947.
68 C. Curcio, op. cit., pp. 20-21.
69 A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino, 1975, p. 238, da F. Bettoni, “Gramsci e Michels: un itinerario critico”, in G.B. Furiozzi, op. cit., p. 219.
70 F. Bettoni, ibidem, p. 221.
71 Autore di un interessante articolo: “Democrazia, burocrazia e oligarchia nei partiti”, Rassegna italiana di sociologia, I, (1960) : 119-136.
72 G. Sartori, op. cit., p. 131.
73 Ibidem, p. 132.
74 Ibidem, p. 135.
75 Nei partiti di destra, come direbbe Michels, esso è implicito, o almeno lo dovrebbe essere in virtù del loro retroterra ideologico.
76 N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 275-276.