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1.4 Un bilancio di un autore discusso

Robert Michels è un autore che, a causa della sua militanza socialista prima e fascista poi, non ha goduto spesso della considerazione appropriata e la sua opera è stata riposta per questo nel dimenticatoio. Tra gli elitisti potremmo quasi considerarlo il più elitista in virtù del fatto che il suo teorema fondamentalistico della sovranità popolare si capovolge nel teorema fondamentalistico della classe politica. Proprio per questo egli fu il più machiavellico dei Machiavellians67; se, infatti, per Mosca, Pareto e Weber la classe politica era considerata elemento fisiologico di ogni gruppo sociale, un elemento però in movimento e soggetto ad un continuo ricambio “democratico”, in Michels la classe politica stessa è il problema; che vi sia ricambio è irrilevante.

Molte sono state le critiche avanzate nei confronti dell’estremismo teorico michelsiano. Tra le altre cose, ciò che spesso gli si rimprovera è di aver scambiato una legge storica per una legge sociologica, accettando i risultati della sua esperienza come un qualcosa di “naturale” ed immutabile, valido per qualsiasi tempo storico e per qualsiasi contesto sociale. In realtà, su questo punto, possiamo ricordare come Curcio affermi che per Michels non esistono “…leggi assolute, dottrine certe, se non con qualche limite. Repugnante alle pregiudiziali rigide, egli rigetta le teorie deterministiche, materialistiche, naturalistiche, che contrastano con la esigenza prevalentemente storicistica del suo temperamento.”68

Le critiche più dure sono piovute certamente dagli ambienti di sinistra. Paradigmatica è la posizione di Gramsci, ostile all’elitismo a priori perché incompatibile con il suo progetto di fare del partito la guida responsabile e democratica delle masse lavoratrici. Il partito gramsciano doveva essere il nuovo Principe di nobile ascendenza machiavelliana. La teoria delle élites e la legge ferrea dell’oligarchia michelsiana costituivano un pericolo mortale nell’orizzonte di questo progetto.

In primo luogo, per Gramsci, il problema dell’organizzazione è un non problema in quanto essa si inserisce in un sistema da lui definito “centralismo democratico”; il partito ha bisogno di disciplina per raggiungere i suoi obiettivi e il problema non è tanto quello di avere democrazia nel partito, ma nella società nel suo complesso. Quasi astioso nei confronti di Michels, gli rimprovera l’assenza di una solida metodologia e uno “scetticismo da salotto o da caffè reazionario”69. L’obiezione di base che Gramsci adotta nei confronti dell’empirismo michelsiano è concentrata nella formula di “generalizzazione tautologica”. Scrive Bettoni: “…la generalizzazione tautologica si definisce, pertanto, secondo il seguente procedimento: a) descrizione del fatto o dei fatti; b) processo meccanico di generalizzazione astratta; da cui c) deriva un rapporto di somiglianza al quale si attribuisce il valore di legge; d) assunzione di questa come fondamento causativo.”70

Siamo di fronte ad una sorta di platonismo; Gramsci ritiene che le leggi astratte ricavate da Michels assomiglino alle idee pure di Platone.

Duri attacchi vengono portati anche nei confronti della nozione di capo carismatico, da Gramsci considerata come una figura espressione di una “demagogia deteriore”, la quale si serve delle masse, opportunamente manipolate, per i propri fini e per le proprie ambizioni. Dal punto di vista etico, Gramsci giustifica solo la “grande” ambizione, il cui fine ultimo è l’emancipazione di una classe. Il principio del carisma, ed in questo ravvisiamo un che di “weberiano”, caratterizza una fase pre-politica, in cui la dottrina è palesata alle masse come un dogma il cui interprete è un papa infallibile, il capo carismatico appunto.

La vera azione politica si attua per Gramsci solo nel partito; è questo lo strumento che media il rapporto tra capo e masse e che non fa perdere di vista al leader il vero protagonista della lotta politica: non il capo né il partito, ma la massa in qualità di soggetto storico, di classe sociale determinata.

Una posizione certamente più equilibrata e super partes è quella di Sartori71. Egli ritiene che il problema posto da Michels circa la pseudo-democraticità dei partiti politici sia un argomento molto serio, ma rimprovera allo studioso italo-tedesco di aver fatto confusione in primo luogo tra la dimensione burocratica e quella più propriamente politica. Un sistema burocratico, di per sé, non è e non ha mai preteso di essere un sistema democratico. Occorre dunque distinguere tra capi politici e personale tecnico-amministrativo.

Per Sartori democrazia e burocrazia possono coesistere senza alcun problema perché una struttura burocratica può essere diretta da capi democratici. Per questo motivo, il politologo italiano tende a riformulare la teoria michelsiana scomponendola in due leggi separate e distinte: la legge ferrea della burocratizzazione e la legge “bronzea” dell’oligarchia, quest’ultima derivante dall’apatia politica del comune cittadino. Tuttavia, egli deve riconoscere che, per quanto sommaria, la teoria di Michels si rivela spesso esatta. Chi si interroga sull’effettiva partecipazione politica dell’individuo medio nella società moderna scoprirà in effetti la sua non partecipazione (dati statistici confermano tale asserzione). In effetti, quasi la totalità dei cittadini aventi diritti politici, pur non essendo necessariamente indifferente, è politicamente inerte.

Detto questo, Sartori cerca però di separare due ordini diversi di problemi: quello della democrazia nei partiti e quello della democrazia interpartitica.

Relativamente al primo, egli ritiene una società democratica perfettamente compatibile con una leadership di pochi capi (Michels vedeva invece oligarchia ovunque vi fosse un sistema di capi). Il punto focale è capire se tale leadership sia affidabile e responsabile. Circa la questione dell’inamovibilità dei capi poi, quest’ultima può risultare dal fatto che essi soddisfino gli elettori, i quali continuano ad eleggerli mantenendoli in carica. “E dunque, – scrive Sartori – quel che davvero fa la differenza tra democrazia e no, non è la velocità di rotazione dei capi, ma il fatto che nel primo caso un leader deve agire in modo da non perdere il posto alla elezione successiva. Insomma, quel che davvero importa non è che i capi vengano sostituiti, ma che essi possano venir sostituiti.”72

Il centralismo dei partiti e dei sindacati è per certi aspetti persino auspicabile. Infatti, “…non si può rimettere tutto in discussione per mille volte, e tutte le volte. Che è quel che potrebbe accadere se la vita delle sezioni fosse così viva e autonoma come alcuni auspicano, e se venisse meno la deprecata centralizzazione. I partiti devono trattare con altri partiti, così come (e ancor di più) i sindacati devono trattare con i datori di lavoro. E per trattare occorre un contraente che risponda dei propri associati. Se le trattative venissero condotte alla periferia, non si finirebbe mai di trattare, e – quel che è peggio – si rischia di non arrivare mai ad un accordo generale.”73

L’errore di Michels, osserva Sartori, è che egli cercava la democrazia dov’era più difficile trovarla: nell’organizzazione, la quale ha finalità funzionali, non democratiche.

Sul secondo punto, quello della democrazia interpartitica, Sartori osserva che “…in un sistema pluripartitico, i partiti si disputano i voti dell’elettorato in concorrenza tra di loro, e quindi la forza e la stessa vita di un partito dipende dalla sua capacità di soddisfare in qualche modo l’elettorato al quale si rivolge. Questo significa che la sorte delle minoranze «organizzate» dei politicamente attivi dipende dalla maggioranza «non organizzata» dei politicamente inerti.”74 Come a dire che è il mercato politico stesso che attribuisce il potere al popolo. La democrazia non la troviamo dentro i partiti, insomma, ma nella concorrenza tra essi. Michels, in definitiva, è romanticamente legato ad un concetto di democrazia che Sartori definisce “faccia a faccia”, una democrazia in piccolo che non regge alla prova dell’aumento di scala.

Risulta chiaro, in sostanza, come su un punto vi sia la convergenza di molti critici michelsiani: l’esistenza di una leadership ed in particolare di una leadership professionale non è sempre incompatibile con la democrazia, salvo definire quest’ultima nei termini di una democrazia diretta.

La lezione della Sociologia è una lezione scomoda e spesso è invalsa l’usanza di giudicare buona o cattiva la tesi del libro a seconda dell’etichetta data al suo autore e sulla base di riserve mentali e di pregiudizi ideologici.

Figura assai complessa e sfaccettata, eclettico e fervente studioso, Michels è stato spesso interpretato attraverso la categoria della delusione, ma sarebbe forse più opportuno servirsi della categoria della disillusione. Nel primo caso, infatti, si commetterebbe l’errore di giudicare implicitamente la sua opera come il frutto di uno stato d’animo emotivo quando invece essa è il frutto maturo di un’esperienza che lo ha condotto a prendere definitivamente coscienza della realtà.

Michels ha l’innegabile merito, tuttora valido, di avere dimostrato e posto il problema dell’irrimediabile carattere oligarchico dei partiti di sinistra75, ideologicamente orientati all’emancipazione democratica; molte delle sue tesi più pessimistiche si sono rivelate verità effettuali. Egli è stato per molti aspetti un preveggente; è lui che, ante factum, ha imbastito la più sferzante critica dei partiti comunisti e della stessa concezione leninista del partito, prima che entrambe le realtà divenissero tali. Alla luce di ciò appare inaccettabile il fatto che tutte le varie culture di partito lo abbiano unanimemente snobbato.

“Si potrà dire – con Norberto Bobbio – che il sostenere la tesi del governo della minoranza, è una banalità. Eppure è una di quelle banalità che vengono volentieri dimenticate.”76 Rileggere oggi l’opera di Michels può essere quindi un ottimo antidoto contro quell’apatia e quella mancanza di coscienza critica nel nostro tempo così imperanti.

Davide Parascandolo

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