La guerra a Isis si combatte con tutti i mezzi utili consentiti, avendo chiaro che si tratta di una guerra contro l’estremismo e il terrorismo e non tra l’Occidente e il mondo islamico, sapendo chi e cosa colpire.

E’ significativo che la maggior parte delle vittime e dei combattenti contro Isis siano mussulmani e che, come documenta una ricerca della “Burson-Marsteller” tra i giovani tra 18 e 24 anni di 16 Paesi arabi e mussulmani, solo il 13% di essi sia disponibile a sostenere lo Stato islamico e, tra questi, quelli che si offrono come combattenti lo facciano per la disoccupazione o le scarse prospettive economiche, solo il 18% per motivazioni religiose.  

L’esperienza insegna che non servono i bombardamenti, che uccidono, prevalentemente, donne, bambini, malati, anziani; neppure lo è la cosiddetta guerra con gli scarponi a terra condotta da eserciti non arabi, che alimenta nuovi e rivitalizzati terrorismi.

Per sconfiggere Isis bisognerebbe eliminare le sue fonti di finanziamento: la vendita del petrolio, lo spaccio della droga, il traffico di esseri umani, il commercio delle armi. Questo, tuttavia, non sarebbe sufficiente a evitare il ripetersi in futuro della stessa o di altre forme di terrorismo, provenienti dalle stesse o da altre parti del mondo.

Quello cui si dovrebbe mettere mano, è la rimozione delle cause più profonde del suo nascere e riprodursi.

Ci sono cause remote riconducibili alla nefasta politica coloniale e all’artificiosa creazione di Stati imposta, dopo le due grandi guerre mondiali, senza alcun rispetto della storia, della cultura, delle etnie, delle sensibilità dei popoli coinvolti, ma solo nell’interesse dell’Occidente. Cito, qui, tra le tante questioni, quelle emblematiche della Palestina e della Libia.

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La prima, ormai incancrenita, è simbolo dell’incapacità o non volontà dell’Occidente di riparare un’acclarata ingiustizia commessa, che priva i palestinesi della loro patria e non garantisce agli israeliani uno Stato in pace. La seconda è un’invenzione del generale Graziani che unificò con la forza la Cirenaica, la Tripolitania e le tribù meridionali.

Poi si è continuato a sbagliare quando, per mettere fine alle follie di Gheddafi, le maggiori potenze coloniali, Francia e Gran Bretagna, hanno voluto bombardare, lasciando il Paese nel caos senza pensare al futuro. Ora, in una situazione ancor più difficile, o c’è il consenso dei libici ad avere un solo Stato o è meglio incoraggiare il ritorno all’autonomia delle diverse realtà.

Ci sono cause recenti, la povertà, la violenza, la guerra, l’insicurezza, le persecuzioni religiose; esse sono, in parte, conseguenti a quelle più antiche e sono comuni a due fenomeni profondamente diversi ma interconnessi, quali sono il terrorismo e le migrazioni.

Ci sono cause che nascono nelle città europee, dove, in virtù di approssimativi o inesistenti programmi d’integrazione o di politiche iperliberiste, i giovani si sentono rinchiusi in ghetti dai quali è difficile trovare un lavoro e un posto nella società.

In quelle realtà cresce la rabbia sociale che, sposata a un fondamentalismo che conta sull’ignoranza, diventa terreno di coltura di potenziali terroristi.

E’ il rischio più grande perché, rispetto al crescente disagio sociale e all’emarginazione, il fondamentalismo islamico si propone come un’alternativa per rendere più giusto il mondo contemporaneo, percepito come iniquo dalle nuove generazioni.

C’è, nel mondo, la volontà di affrontare e risolvere queste questioni? Credo si possa contare sulla voglia di scendere in campo delle nuovissime generazioni, intrise di multiculturalismo e bramose di verità, giustizia, equità.

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Possiamo sperare che papa Francesco riesca ad aprire brecce profonde con le sue parole chiare su terrorismo e migrazioni, le sue denunce, i suoi forti atti simbolici, l’intenso dialogo interreligioso.

Per ora l’accoglienza è tiepida se non di rifiuto, anche con manifestazioni di fastidio, ad esempio, di fronte al Papa che in Africa passa tra la folla insieme all’Iman e in mezzo a mussulmani festanti per la sua presenza.

Purtroppo, prevale ancora la pretesa, miope ed egoista, di poter continuare a depredare petrolio, gas naturali, uranio ecc..; uno sfruttamento che, in quel Continente, non sarebbe più possibile se si realizzassero l’effettiva pacificazione, il miglioramento delle condizioni di vita, l’istruzione delle popolazioni, la fine di strumentali scontri religiosi.  

Antonio Simiele