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1.3 Il concetto michelsiano di democrazia

La democrazia auspicata da Michels e della quale egli dimostra l’impossibilità logica e storica è quella classica, intesa in senso etimologico come un sistema che prevede l’abolizione di capi e di ogni dominio, configurandosi come la forma pura del “governo del popolo”.

La sua concezione si riallaccia strettamente alla teoria rousseauiana della “volontà generale”, mirante ad affermare un regime di legislazione diretta del popolo. “L’autogoverno delle masse consiste nel tentativo di un’emanazione quanto più diretta possibile della volontà popolare per determinare la vita del gruppo e quindi in un superamento quanto più completo possibile della leadership.”58 Egli aggiunge che questo tipo di regime, basato sulle deliberazioni delle assemblee popolari, rappresenta il modello per l’ideale democratico.

E’ chiaro che, scegliendo come campo d’indagine il partito, Michels abbandona il terreno della democrazia pura e s’inoltra su quello della democrazia reale caratterizzante le logiche dei moderni Stati di massa; una democrazia realizzata, ma falsa, mistificata dal sistema rappresentativo-parlamentare avente alla base un regime di suffragio universale.

L’obiettivo di Michels consiste nel dimostrare che la democrazia rousseauiana, concepita come esercizio della volontà generale da parte del corpo politico, è assolutamente irrealizzabile, nel tempo presente come in quello futuro. “La democrazia pura, ideale e originaria è destinata nella migliore delle ipotesi a rimanere prigioniera di un improbabile iperuranio delle buone intenzioni: è semplicemente irrealizzabile, impossibile.”59 Le democrazie reali sono invece intimamente pervase da tendenze oligarchiche, fondate come sono sul principio rappresentativo e sui meccanismi del ciclo elettorale; esse sono perciò false democrazie al fondo delle quali Michels scorge un unico principio regolatore: la “legge ferrea dell’oligarchia”.

Le democrazie reali sono solo, moschianamente parlando, delle “formule politiche”; sistemi in cui il servitore del popolo (l’eletto) ne diviene facilmente padrone con l’ausilio dei meccanismi fisiologici che si attivano sul terreno dell’organizzazione.

Il punto focale della discussione consiste nel fatto che Michels accetta senza riserve il presupposto rousseauiano secondo cui un sistema politico basato sulla rappresentanza non possa dirsi democratico. Questo nodo del problema è stato affrontato e risolto da gran parte della scienza politica moderna. Tuttavia, è lo stesso Michels a rendersi conto che il problema della democrazia deve essere inteso come un problema di “gradi” e che l’intento della sua ricerca è consistito nel mostrare entro quali limiti la democrazia sia un ideale che nella storia non potrà mai avere applicazione se non come criterio etico per misurare il grado di oligarchia immanente ad ogni assetto sociale.

Oggi la maggior parte degli esperti ritiene che, perché si possa parlare di democrazia, sia sufficiente che i singoli cittadini, ai quali per ovvie ragioni è impedito di partecipare in massa al governo diretto, abbiano la possibilità di esprimere la propria volontà attraverso il processo elettorale. Una società, cioè, può essere democratica ed al contempo essere espressione di una leadership ristretta; è un concetto riduttivo della democrazia che Michels non avrebbe mai potuto accettare. In quest’ottica appare ovvio come la concezione democratica concepita da un Rousseau, per intenderci, sia semplicemente un sogno, essendo in palese contrasto con la natura umana e con le necessità immanenti di qualsiasi organizzazione politica. Qui giochiamo sul terreno “fondamentalista” di quelle dottrine religiose e politiche le quali presuppongono, per la loro integrale applicazione, una perfezione morale che l’umanità non potrà ragionevolmente mai avere.

Al di là di tali considerazioni, rimane il fatto che il giudizio di Michels, pur ammettendo che “…entro certi limiti, anche il partito democratico retto oligarchicamente può senza dubbio influire in senso democratico sullo Stato”60, resta fatalmente pessimistico (tanto da estendere le conclusioni antidemocratiche evidenziate dall’analisi delle strutture interne dei partiti allo Stato nel suo complesso).

Ciò che lo irrita è lo stesso sistema elettorale, che per lui implica una riformulazione del principio democratico in termini liberisti più ancora che liberali; egli non può concepire una politica ridotta alla stregua di un mercato dei voti, dove la sovranità degli elettori si compra. Una democrazia ridotta a questo, e cioè a mera concorrenza di élites per la ricerca del consenso, gli doveva apparire come un qualcosa di ben misero e vuoto. Per questo, il paradosso a cui giunse fu proprio quello di condannare la democrazia reale in nome di un ideale di democrazia che non avrebbe mai potuto trovare attuazione; o tutto o nulla, niente compromessi. “L’ideale condannato in nome della realtà, la realtà condannata in nome dell’ideale: ma appunto perché si trattava di un ideale degno di essere perseguito nonostante la sua irraggiungibilità.”61

Si potrebbe quasi dire che per Michels la democrazia sia come Dio, che o c’è, ed è Dio, o non c’è; su questo palcoscenico egli veste decisamente i panni di un credente che ha perso la propria fede, di un “prete spretato”. Per lui non vale la pena di perseguire una democrazia parziale, ed in ciò è ravvisabile una contraddizione allorché, in un passo finale della Sociologia, così si esprime: “Il compito del singolo dovrà essere dunque simile a quello di colui che ricevette dal padre morente l’indicazione di un tesoro sepolto; non il tesoro, che non si trova, ma il lavoro dedicato alla sua ricerca renderà fertile il campo.”62

Per Michels, la democrazia autentica non può certo ridursi al “metodo democratico”; in tal caso la forma, l’apparenza, nasconderebbe sempre l’assenza di sostanza, essendo semplicemente un processo procedurale regolato e basato sullo strumento fittizio della scheda elettorale. Egli è irrimediabilmente ostile e sospettoso nei confronti della democrazia apparente del suffragio universale e della rappresentanza parlamentare. “La storia del secolo Decimonono – scrive – è stata contrassegnata dal suffragio universale. […] Così la massa salì sulla scena del parlamento, rappresentata dai suoi legittimi delegati. E così ebbe origine una grande superstizione politica. Quale essa sia, è stato espresso, con parole efficaci, da Spencer: «The great political superstition of the present is the divine right of parliaments. The oil of anointing seems unawares to have dripped from the head of the one on to the heads of the many and gives sacredness to them also and to their decress.»63

Leggi anche:  L’Italicum tra governabilità e democrazia

Ciò che non possiamo tralasciare di considerare sono però le conseguenze cui Michels perviene a seguito delle sue riflessioni e che potremmo definire come il paradosso antidemocratico della democrazia. La democrazia “elezionistica” è una forma degenerata della politica in quanto fondata sul principio del “massimo numerico” che trasforma i partiti in macchine “pigliatutto”, perdendo purezza ideologica e dottrinaria.64

Per molti studiosi, contrariamente a Mosca, Michels svolge coerentemente la trama della dottrina elitistica fino alle sue estreme conseguenze, approdando logicamente al fascismo. Costoro ritengono che quest’ultimo non sarebbe altro che l’elitismo che si fa prassi, la scienza che diventa cosa. Attraverso l’immagine del duce, Michels arriva a codificare il concetto paradossale ed antinomico di una “antidemocrazia democratica”; se il sistema rappresentativo-parlamentare è falso ed ingannevole, Michels gli preferisce il rapporto diretto e schietto tra il duce e le masse, senza alcuna fittizia mediazione.

E’ però evidente che, così facendo, egli uccide la democrazia per troppo amore di essa, gettandola nel precipizio della dittatura. Ciò che per lui conta veramente è un rapporto sincero ed immediato tra il potere e le masse, un rapporto che si esplica nell’acclamazione e nella professione di fede delle masse ad un duce che ne accoglie gli “umori” da un balcone. La massa, in questo modo, risorge a nuova vita divenendo co-protagonista del potere, attraverso una sorta di adesione morale e spirituale al duce.

Michels è abbagliato dall’illusione ottica che una democrazia più autentica possa scaturire da un contatto emozionale tra duce e masse; pur restando lontana dal modello della democrazia ideale, la «democrazia fascista» “…dovette apparirgli senz’altro molto più vicina al modello di quanto non lo fosse la falsa democrazia dei numeri, dei partiti pigliatutto e dei tortuosi intrighi di palazzo. Tra il «paradosso antidemocratico della democrazia» e quello «democratico dell’antidemocrazia» Michels doveva scegliere il secondo e trarne quindi delle conseguenze che Mosca – come Weber – non avrebbe mai tratto.”65

Il paradosso è tutto qui; la diffidenza in lui tanto radicata nei confronti della democrazia dei partiti e dei parlamenti non gli permise di comprendere che l’affidare i destini della democrazia ad un rapporto populista tra capo e masse significava azzerarla definitivamente, consegnando le masse stesse alla tirannide, ancor più lontana da quella democrazia ideale di quanto non lo fossero le democrazie reali.

Del resto, Michels porta alle estreme conseguenze quella tendenza definita di “democrazia totalitaria” (di destra o di sinistra non importa) il cui capostipite è ravvisato da molti proprio in Rousseau, reo di aver affermato, nell’ambito del discorso sulla volontà generale, che il bene comune non è percepibile dalla maggioranza, ragion per cui deve essere necessariamente un’avanguardia illuminata a rendere intelligibile la verità al resto del popolo conducendolo verso l’affermazione di una volontà che, aggiungiamo noi, non sembra neanche sapere di avere66 (giacobinismo docet).

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