Un ritorno all’ economia di mercato civile: il perseguimento del bene comune

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Che la politica economica dei governi italiani degli ultimi anni abbia perso la bussola dei veri principi liberali si era già capito da un bel po’, anche durante le tante campagne elettorali, ma la confusione che sta imperversando per il varo della manovra economica, ancora in discussione, è la conferma di un vecchio modo di fare politica, più vicino ad interessi di una parte soltanto, più forte e determinante, piuttosto che al benessere collettivo. Le linee lungo le quali si sta muovendo il provvedimento sono fondate sull’ipocrisia, sull’insulto contro quelli che sono i veri principi ispiratori di uno Stato liberale, privandolo di un serio progetto industriale di crescita e di progresso, senza spirito innovatore che riporti il sistema verso lo sviluppo economico. Manca il coraggio del liberale! Quell’Albero della Libertà piantato nel bel mezzo della Rivoluzione napoletana, che per decenni ha prodotto e continua a produrre frutti succulenti, da noi oggi cresce su di un terreno arido, che abbisogna di nuova linfa e di essere innaffiato da quell’acqua limpida che sgorga dalle sorgenti liberali che erano dei nostri padri.

I debiti eccessivi nei bilanci degli Stati, sono certamente frutto di miope scelte del passato, lontane anni luce dalle logiche liberali, improntate sulla crescita generale e della collettività, piuttosto che ispirate da interessi personali, locali, di partito, che hanno prodotto disavanzi esorbitanti. Questa situazione è sicuramente di ostacolo a quelle politiche di cui oggi necessita il sistema, per superare l’attuale fase congiunturale. Come hanno evidenziato studiosi ed economisti, purtroppo, l’indebitamento eccessivo è sempre seguito da almeno un decennio di bassa crescita, in cui i consumi e gli investimenti ristagnano mentre la disoccupazione aumenta. Tutto questo porta ad un ulteriore rallentamento dell’economia e, di conseguenza, ulteriori difficoltà per la copertura del debito. Ed è in questa fase che servono risorse vere per ridare ossigeno al mondo economico, stimolando la produzione ed il lavoro, premiando tutte quelle iniziative che vanno in questa direzione, risorse che non devono essere viste come spese, piuttosto come investimenti per il futuro: pensiamo alle famiglie, alle imprese, alla scuola, alla sanità, alla ricerca scientifica ed universitaria. Nel pensiero dell’abate A. Genovesi, “il fine dell’economia civile, siccome è più di una volta detto, è: I. l’aumentazione del popolo; II. La di lui ricchezza; III. La sua naturale e civile felicità; IV. E con ciò la grandezza, gloria, e felicità del Sovrano”.

L’attività politica-amministrativa dei governi degli ultimi venti anni, almeno, è stata caratterizzata dalla mancanza, come hanno sottolineato numerosi economisti negli anni addietro, di quel modo di agire tipico del “buon padre di famiglia”, perché durante gli anni delle cosiddette “vacche grasse”, ossia la crescita, occorreva approntare tutte quelle riforme che liberassero l’economia da lacci e impedimenti di ogni sorta, per la riforma fiscale e previdenziale, la giustizia, il welfare e altro ancora, creando quegli avanzi di bilancio, linfa indispensabile cui attingere durante il periodo delle “vacche magre”, ossia la depressione. Già nel 1967 Paolo VI esortava i governi perché “lo sviluppo esige trasformazioni audaci, profondamente innovatrici. Riforme urgenti devono essere intraprese senza indugio. A ciascuno l’assumersi generosamente la sua parte, soprattutto a quelli che per la loro educazione, la loro situazione, il loro potere si trovano ad avere grandi possibilità d’azione”. Purtroppo, i provvedimenti di riparazione vengono sempre adottati a ridosso delle catastrofi. Risorse generate dal risparmio, come diverse volte esortava dagli scranni parlamentari G. Fortunato, per incentivare gli investimenti e la crescita, perché la produzione genera ricchezza e quindi lavoro, non le rendite di capitale, che contribuiscono alla propagazione della speculazione. Ma rimase “voce di uno che grida nel deserto” (Mc 1, 1-3)! E il debito divenne zavorra!

Lo storico e politico di Rionero in Vulture (PZ) maturò una decisa posizione liberista sul finire del XIX secolo, quando proclamava una politica tesa al risparmio di spese inutili, per poter meglio canalizzare le risorse così liberate verso gli investimenti pubblici, di cui l’Italia Unita aveva necessariamente bisogno, generando ricchezza, lavoro, progresso. “Il cambiamento di rotta andava riportato, semmai, alla convinzione che, date le mutate condizioni del paese, fosse necessario assumere un nuovo indirizzo politico generale” (Griffo M., Profilo di Giustino Fortunato. La vita e il pensiero politico): dovrebbe diventare il proclama degli attuali governi dei Paesi liberali, per sintonizzare le loro politiche su sentieri caratterizzanti lo sviluppo. L’abate Genovesi, strenuo sostenitore delle idee liberali, avrebbe detto che “facilitando lo smercio, si da moto a tutti i prodotti della terra e dell’arte: questo moto, aprendo gli scoli, agevola e accresce il guadagno; e il guadagno è sempre l’esca di coloro che travagliano”. Quindi, una politica che incentivi la produzione e di conseguenza il lavoro, che generi ricchezza attraverso il soddisfacimento dei bisogni, e di conseguenza, la nascita di altri e più complessi bisogni. Lo ha ribadito anche Giovanni Paolo II riprendendo la Sua Lettera Enciclica del 1981 Laborem exercens nel Centesimus Annus (1991) quando afferma che “il lavoro ha una dimensione «sociale» per la sua intima relazione sia con la famiglia, sia anche col bene comune, «poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai è quello che produce la ricchezza degli Stati”.

Ma niente di tutto questo avviene. Quella bandiera ormai si è ammainata. Nel corso degli anni, si è sempre attuata una politica di rimando al futuro della soluzione dei debiti di bilancio, e quando l’economia attraversa la fase ciclica della depressione, è duro cercare di risollevarla, se non si intraprendono iniziative che attingano risorse dai bilanci pubblici, le quali, in quel momento, devono essere disponibili per intervenire a sostegno della difficile congiuntura. Ad appesantire la situazione, nel corso del tempo si è imbastita una fitte rete di leggi e strozzature al commercio, tanto che C.A. Broggia afferma: “riposando chi governa nella molteplicità delle leggi, non trascurasse le strade più efficaci, più semplici, e più naturali, per rimediare a i mali, ed alle Contravenzioni, e non causasse nell’istesso tempo un mare di frodi; dal moltiplico delle quali la Polizia in fine si stanca, e lascia che il Mondo vada come sa andare, salvando ogni uno per lo più l’Apparenza”. In questo terreno prende piede la rivoluzione liberale, anche dal fragile tessuto sociale del Sud d’Italia, con illustri protagonisti che hanno portato sempre avanti le istanze della loro gente.

Lo stesso G. Fortunato sosteneva che la situazione politica italiana e la stessa questione meridionale erano frutto della scarsa capacità della classe dirigente, imprigionata in logiche e spartizioni locali, mostrando inadeguatezza nella gestione delle risorse pubbliche, senza mettere al centro dei propri fini il benessere economico, sociale e civico della collettività. Diceva, ancora, l’abate Genovesi che “tutti i dritti, de’ quali le persone nascono fornite, non hanno altro fine, salvochè la loro conservazione, e felicità”. C.A. Broggia afferma che “tutti sanno che il Commercio arricchisce i Popoli, e rende forti e robusti gli Stati, e che quanto più i Popoli stessi son ricchi in generale, più stanno contenti, e più di leggieri soffrono i Pesi pubblici, e soddisfano ai Tributi”. Il fine del bene pubblico, la soddisfazione dei bisogni collettivi deve essere il centro catalizzatore di tutta l’attività di ogni governo, che si proclami liberale nelle intenzioni e nei fatti, attraverso un percorso che faciliti la produzione e la commercializzazione della ricchezza di un Paese, premiando chi investe in attività produttive. Liberare l’uomo dallo stato passivo del bisogno, così come affermava K. Menger nei suoi Principi di Economia Politica, deve essere l’obiettivo primario, perché dal suo soddisfacimento deriva benessere e da questo scaturiscono nuovi bisogni cui occorre dare risposte, senza vincoli e legami particolaristici.

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Occorrerebbe, forse, ritornare ad esaminare e riflettere su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, analizzata da Stefano Zamagni nel suo saggio L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo. Secondo questa chiave di lettura, l’analisi di Zamagni porta a distinguere, così come impostato dalla storia del pensiero economico, l’economia di mercato civile, dall’economia di mercato capitalistica, dove la prima ha come fine il bene comune, da sempre ricercato dall’uomo, “ossia l’etica cattolica, è la logica della reciprocità a preservare il mercato dalle degenerazioni”. La seconda, invece, è caratterizzata dal conseguimento del bene totale, ossia la massimizzazione del profitto, che ha preso piede con l’avvento del capitalismo puro del guadagno facile e nel breve termine, a prescindere da ogni e qualsivoglia patrimonio culturale e di valori morali, largamente inteso. Contro questa logica si schiera Giovanni Paolo II quando afferma, dopo aver riconosciuto la funzione del profitto come buon andamento dell’azienda, che “Scopo dell’impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l’esistenza stessa dell’impresa come comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell’intera società. Il profitto è un regolatore della vita dell’azienda, ma non è l’unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno egualmente essenziali per la vita dell’impresa”. Si passa così da un economia di mercato civile che aveva la propria mission nel benessere comune, ad una economia di mercato capitalistica, che con la massimizzazione del profitto ha comportato la degenerazione sociale e la perdita di quel bagaglio di valori sociali e morali posseduto dagli individui. Avrebbe risposto Karl William Kapp che “non la massimizzazione del piacere, ma la soddisfazione delle basilari necessità umane o la minimizzazione dell’umana sofferenza a me sembra debbano costituire il principio cardine che guidi le politiche e serva come goniometro dell’efficienza sociale”. Nel 1925 fu Keynes ad affermare che “il capitalismo moderno è assolutamente irreligioso” (Berselli, 2010). Giovanni Paolo II sosteneva che persino l’economia del benessere, dopo aver vinto il marxismo, poggiata sul consumismo sfrenato, mostra “come una società di libero mercato possa conseguire un soddisfacimento più pieno dei bisogni materiali umani di quello assicurato dal comunismo, ed escludendo egualmente i valori spirituali”, portando a “ridurre totalmente l’uomo alla sfera dell’economico e del soddisfacimento dei bisogni materiali”. Per questo occorre un ritorno ad un’economia liberale impostata secondo lo schema del libero mercato, attraverso un sistema di regole ben definite, ispirate dal proprio patrimonio storico, valoriale di un popolo, o di una comunità, ripensando il benessere collettivo e ristabilendo quell’equilibrio tipico dei grandi pensatori dell’economia di mercato civile (A. Genovesi, M. Palmieri, P. Palmieri, P. Verri, C.A. Broggia, solo per citare qualcuno). Sono forti e scuotono le coscienze dei più intelligenti le parole, nella Progressio Populorum, di Paolo VI quando afferma che i popoli privati del minimo materiale soffrono delle carenze materiali, mentre coloro che vivono nell’egoismo, chiusi in se stessi, soffrono più intensamente la carenza morale.

Nel pieno dell’era dell’Illuminismo, fu proprio l’abate Genovesi a gettare le basi per le sue lezioni liberali, in un’opera magna, piuttosto che un vero e proprio trattato di scienze sociali, economiche, civiche e politiche, secondo un’impostazione antropologica della missione dell’economia, cui attinse anche il nostro G. Palmieri. Per poter governare, rifletteva Genovesi, “si richiede il Filosofo, ed il Filosofo Politico, e innamorato delle vere cagioni della pubblica opulenza, e prosperità, che sono le Virtù, e l’Arti”. In questa visione, la politica diviene servizio al cittadino, una vera e propria missione che deve svolgere chi si presenta quale servitore del bene pubblico. La straordinarietà del pensiero di Genovesi sta nello stravolgere, ma diremmo pure nel prendere le distanze dal pensiero di A. Smith, nel senso che si passa dal considerare il motore dell’economia quegli spiriti egoistici dell’uomo, che tende all’appagamento dei suoi bisogni, all’idea di uomo come “un animale naturalmente socievole […] per natura compagnevole”, pertanto “ogni membro di una comunità è come ogni membro del proprio corpo, tutti devono soggiacere alla legge per poter garantire la personale conservazione”. Secondo questo pensiero (“ogni uomo è membro della società”, nelle parole di Paolo VI), G. Palmieri introduce il concetto di Amore sociale nell’economia, perché “per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurare quello degli altri” (Riflessioni sulla pubblica felicità relativamente al Regno di Napoli), che fa da sfondo, successivamente, al pensiero della Progressio PopulorumLo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità”. E qui ritorna il pensiero di S. Zamagni, quando afferma che i valori del Cristianesimo possono divenire fondamenta del nuovo percorso dell’economia, ispirando l’azione produttrice del bene comune, che era l’obiettivo dei padri del pensiero liberale. Lo affermava Paolo VI (1967): “I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”. Valori cristiani che lo stesso pontefice invocava come dovere sulle famiglie, sulle organizzazioni multilaterali ed internazionali in genere. Secondo questa interpretazione, G. Palmieri e A. Smith ci offrono, così, due diverse chiave di lettura, concatenate tra loro, perché l’uomo, perseguendo il proprio fine egoistico, in perfetto stile smithiano, inconsapevolmente, porta tutta la società di cui fa parte verso il benessere diffuso, procurando, in tal modo, il bene degli altri. Questo certamente avrà ripercussioni positive sulle proprie condizioni e sulla sfera personale di ciascuno, nel senso che se gli altri stanno bene, certamente ci sarà anche il tornaconto individuale. Le parole di Paolo VI indicano, in modo chiaro e diretto, nell’ottica della Sua visione antropologica, la strada maestra su cui muoversi, perché “lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev’essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”, nel senso che la visione dell’economia non deve essere separata o considerata distinta dal suo attore principale, ossia l’uomo, come il progresso dalla civiltà in cui si inserisce, piuttosto occorre prendere in esame l’umanità nella sua completezza e interezza.

Come G. Fortunato, anche l’aristocratico salentino de Viti de Marco diede un importante spinta alla diffusione del pensiero liberale e liberista. De Viti subì inizialmente l’influsso del pensiero economico germanico, ossia quello dominante nel periodo noto come ‘socialismo di cattedra’, in cui l’elemento prevalente era la politica della Nazione. In Germania, un importante esponente di questo pensiero fu il padre del filosofo Weber, Max, sostenitore della politica di Bismarck, creando una profonda distanza politica e culturale con il figlio Max. Ma durante gli anni degli studi universitari, de Viti ne prese le distanze, affascinato dal pensiero liberale anglosassone (agevolato soprattutto dalle origini familiari), che difendeva l’individuo, contro quello germanico, che era dalla parte dello Stato contro l’individuo. Lo stesso G. Salvemini in un suo scritto afferma che “nell’Italia unificata i “liberali-moderati” furono “conservatori” delle istituzioni monarchico-costituzionali e della unità nazionale. Il loro ideale era una monarchia secondo il modello prussiano. In essa dovevano predominare le classi superiori coll’aiuto di un solido esercito e di una disciplinata burocrazia”. De Viti voleva sovvertire l’ordine delle cose.

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Oltre all’influsso delle origini familiari, figlio dell’aristocrazia che riteneva fosse compito loro quello di guidare la vita politica, vi sono anche gli studi giovanili di de Viti, riguardo il marginalismo, a coltivare in lui quella posizione liberale che assunse fino alla fine e fino alla rinuncia alla cattedra romana, pur di non prestare giuramento al regime fascista. Studi incentrati sul marginalismo basato sugli insegnamenti di Stanley Jevon, che andavano nella direzione della libera concorrenza contro ogni forma di monopolio: e qui si vede come il liberismo di de Viti si allontana dalla concezione del socialismo di cattedra in voga in quegli anni. Nella concezione del pensiero liberale di de Viti, che anche noi sosteniamo, il compito dello Stato è quella di definire le regole in difesa della libera e leale concorrenza, contro il monopolio. Difatti, la politica di de Viti piuttosto che antistatalista, combatte i poteri economici che sfruttano il potere politico dello Stato, creando inefficienze e sperequazione diffusa. “In America è “liberale” chiunque non è conservatore. Anche a un comunista può accadere di essere chiamato e di chiamarsi “liberale“, avrebbe ancora detto G. Salvemini, quasi a volere sostenere l’impostazione anglosassone del marchese di Casamassella. Le intenzioni andavano nella direzione di creare una democrazia, e quindi anche un mercato, basati sulla libera e leale concorrenza (a cui Paolo VI aggiungeva le parolegiusto e morale, e dunque umano”) in difesa anche delle classi meno fortunate, contro ogni forma di dittatura che sfrutta il monopolio per salvaguardare i pochi poteri forti di tipo economico. La sintesi della nuova impostazione liberale, che diedero questi illustri pensatori, è riassunta dal pensiero di De Viti De Marco, ad opera di Manuela Mosca: “assicurare alla società una crescita che non umili i ceti più bassi, che devono essere naturalmente sostenuti, però in modo che questo sostegno ai ceti meno fortunati non sia a svantaggio, a danno di quelli che vogliono emergere”. La concezione dello Stato secondo la Chiesa, nelle parole di Giovanni Paolo II, nella rilettura della Rerum Novarum, “non può limitarsi a «provvedere ad una parte dei cittadini», cioè a quella ricca e prospera, e non può «trascurare l’altra», che rappresenta indubbiamente la grande maggioranza del corpo sociale; altrimenti si offende la giustizia, che vuole si renda a ciascuno il suoCentesimus Annus, 1991). Volendo con ciò ribadire che, davanti a difficili situazioni umane e sociali, una funzione importante deve assumere lo Stato, che non può e non deve rimanere sordo alle tante richieste avanzate dalle sue membra bisognose e tradite dall’economia di mercato capitalistica, della massimizzazione del profitto a tutti i costi, nelle logiche del breve ed immediato periodo, le quali istanze sociali non rappresentano, però, quell’interesse personale che il governante di oggi va in cerca, per propri tornaconti elettorali.

Nella logica del raggiungimento del bene comune, riprendendo le ultime parole di de Viti de Marco, obiettivo che fu dell’economia di mercato civile, snodo cruciale diventa la riduzione delle diseguaglianze sociali, economiche, politiche, civili, perché il progresso possa raggiungere ogni fascia della popolazione e non restare a vantaggio dei soliti pochi privilegiati. In questo senso, vi è un interessante lavoro del premio Nobel per l’Economia nel 1998, Amartya K. Sen, dal titolo La diseguaglianza (2000), in cui l’economista va all’affannosa ricerca di una risposta alla domanda “diseguaglianza di che cosa?”. In particolare, nelle sue meditazioni mette subito in evidenza come il tema della diseguaglianza affonda le sue radici nella sostanziale differenza interpersonale, basata sul sesso, sull’età, sulle capacità fisiche, sul carattere e le sue determinazioni psicologiche e altro ancora. In questo, una equa distribuzione del reddito, ispirata da politiche tese a ridurre e a combattere la forte differenza nel tessuto sociale, potrebbe portare a profonde diseguaglianze dovute alle diversità personali, al diverso approccio e nella diversa capacità dell’individuo di trasformare le risorse e i mezzi a disposizione in appagamento dei bisogni, soprattutto per il differente livello di libertà di cui ogni uomo può godere. Diviene, a questo punto, riduttivo pensare alla diseguaglianza, e quindi anche alla povertà, soltanto in termini di reddito e di reddito minimo di sussistenza, quando è presente una molteplicità di fattori che possono influenzare la diseguaglianza. Paolo VI parlava dello “scandalo di disuguaglianze clamorose, non solo nel godimento dei beni, ma più ancora nell’esercizio del potere”. Con l’affacciarsi dell’attuale pesante congiuntura economica, le diseguaglianze stanno divenendo sempre più croniche e sanabili con molta difficoltà, come è stato riconosciuto da Benedetto XVI nella Sua Lettera Enciclica Caritas in Veritate (2009), denunciando l’”erosione del <<capitale sociale>>, ossia di quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile”. Il lassismo da parte delle pubbliche istituzioni abilitate al controllo dei sistemi economici, a cui abbiamo assistito prima della crisi del 2008, sono state le principali artefici del degrado sociale in cui oggi versa l’uomo, vittima del suo stesso operare affannoso, alla ricerca del facile guadagno nell’ottica del breve periodo, piuttosto che mirare alle prospettive future: colpevole di miopia e causa dei suoi stessi mali. E. Berselli afferma che “la grande recessione non è semplicemente una questione tecnica e di regole, né soltanto di autorità deficitarie nel controllo, bensì è un problema anche questo <<totale>> di distribuzione fallimentare della ricchezza a vantaggio dei ricchi e a sfavore dei poveri” (2010). Il tema della diseguaglianza è stata affrontata agli albori dell’era industriale nell’Europa continentale, da Leone XIII e ripresa da Giovanni Paolo II in Centesimus Annus, nell’anniversario della stessa Enciclica leoniana Rerum Novarum, allarmando sulla grave situazione di dissesto sociale provocata da un capitalismo eccessivamente spinto e senza regole, ma ancora nella sua fase embrionale, che oggi si manifesta quotidianamente nella speculazione di borsa, dimostrando con quanta facilità si può comprare e vendere denaro, anche allo scoperto, provocando catastrofi sociali e umani inimmaginabili, di cui lo stesso uomo è il reo colpevole.

Per cercare tirare le fila del discorso e tessere una linea difensiva nella direzione della visione liberale dell’economia, i Governi degli Stati devono ispirarsi ai principi dei nostri padri, tornando ad occuparsi degli interessi collettivi, in una economia in cui i deficit eccessivi assorbono le risorse pubbliche, sottraendole dal mondo produttivo. Come osserva S. Zamagni, occorre riprendere nelle proprie mani l’idea del benessere comune, ritornare a quella che era l’economia liberale di ispirazione civile, di Genovesi, Verri, Palmieri, Broggia, e altri. Le politiche economiche di questi ultimi anni sono state, invece, lontane dalle logiche liberali, quando hanno imposto eccessive tasse senza crescita, dimostrandosi sorde davanti alle istanze di libertà e attente nell’ascolto del grido di aiuto che veniva dai pochi poteri forti del mondo capitalista. Oltre al pareggio di bilancio, compito dei governi è anche quello di stimolare la crescita economica e il benessere collettivo, attingendo dalle risorse di bilancio, che ogni buon padre di famiglia dovrebbe aver creato nei periodi floridi, per far fronte alle necessità improvvise, a quegli avvenimenti che non ti danno il preavviso. Era ed è sostanzialmente il pensiero economico che maturò e portò avanti nella sua battaglia liberale G. Fortunato, con lo sguardo sempre rivolto alla questione meridionale. Sul tema, lo stesso storico polemizzava che il denaro presente nelle ricche casse del Regno di Napoli, al momento dell’Unità italiana, era il segno evidente che la moneta non circolava abbastanza all’interno dello Stato, e l’economia ristagnava, in quanto gli investimenti erano piuttosto assenti nella politica borbonica dell’ultimo periodo. Risparmiare per investire: questa la ricetta proposta.

In merito alla eccessiva turbolenza dei mercati, provocata dai deficit eccessivi dei Paese più industrializzati, dovrebbe aver imparato a tutti una lezione importante, da riportare, in futuro, sui testi scolastici di economia, ossia che la politica del debito eccessivo alla fine non paga. O meglio, impostare le proprie scelte economiche su di un orizzonte temporale di breve periodo è sintomo di ignoranza, avrebbero detto Genovesi e gli altri, perché manca quella visione del futuro, ingrediente degli esseri savi. Messi alle strette, o si risana il bilancio o si rilancia la crescita, ma la seconda ha come base di appoggio importante il perseguimento del primo obiettivo. Si possono fare entrambe le cose, e pure bene. Tagliare la spesa superflua, i privilegi di pochi, che nel corso del tempo i fantomatici governi liberali hanno accumulato, e premiare quell’imprenditore, giovane e talentuoso, studioso, pieno di iniziativa, che reinveste il proprio guadagno generando produzione, lavoro e ricchezza, invece che assicurarsi rendite di posizione. In questo modo si generano a sua volta nuove entrate per le casse dello Stato, innescando un circolo virtuoso, sulla strada dell’equa distribuzione delle ricchezze. “La prima molla motrice dell’Arti, dell’opulenza, della felicità di ogni nazione, è il buon costume, e la virtù” (A. Genovesi). Le politiche dei governi rimarranno sempre all’ombra del futuro, prive di slancio e ricche di impedimenti e di interessi collusivi, fintantoché la loro funzione non sia orientata verso la riduzione delle diseguaglianze, combattendo le discriminazioni, per “liberare l’uomo dalle sue schiavitù”, rendendolo “capace di divenire lui stesso attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso morale, dello svolgimento pieno del suo destino spirituale” (Paolo VI, 1967).

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In conclusione, secondo il pensiero di S. Zamagni, il processo di accumulazione della ricchezza non è soltanto utile per far fronte alle esigenze future, come per esempio il periodo attuale caratterizzato dalla mancanza di una spinta economica da parte dei governi, per mancanza di risorse e per la presenza dei debiti di bilancio. Diventa essenziale, tale processo di accumulazione di ricchezza, inteso come atto doveroso di “responsabilità nei confronti delle generazioni future”: una parte del reddito deve essere destinata agli investimenti produttivi, che allargano la base produttiva, deve diventare modus operandi non solo delle economie private, ma anche di quelle pubbliche, secondo l’impostazione liberale dei devitiani, che dimostrarono come l’economia pubblica si muova con gli stessi strumenti in uso nell’economia privata: qui è l’originalità della Public Choice del premio Nobel Buchanan, riprendendo i principi di economia finanziaria che furono di Antonio De Viti De Marco. Allora si fa strada, tra i sempre più diffusi fallimenti del mercato e l’inefficienza dello Stato nell’appagamento dei bisogni, la terza via che prospetta anche E. Berselli, ossia il terzo settore, con il suo forte attaccamento ai veri valori cristiani, fondamenta del bene comune, con i quali tante organizzazioni sociali, non governative, senza scopo di lucro quotidianamente operano sul mercato, nella società provata dalle ingiustizie sociali ed economiche, offrendo diversi beni e servizi che gli altri due settori non sono in grado di fornire, perché incapaci di penetrare nelle varie fasce sociali in cui è divisa la popolazione, a causa delle loro ferma attenzione verso la “privata felicità”. In questo, riveste una determinata importanza il pensiero di E. Berselli e di S. Zamagni, quando invocano un ritorno ai valori fondanti il cristianesimo, come l’amore per il sociale e per il bene comune, richiamati dal senso di solidarietà a livello nazionale ed internazionale, diffusi dalla Chiesa nell’opera pastorale dei suoi pastori, perché “si dimostra come uno dei principi basilari della concezione cristiana dell’organizzazione sociale e politica”. Per questo motivo è importante la ridefinizione della scala delle priorità nell’economia sociale, dando ampio spazio alla crescita umana inserita nel contesto di una situazione economica programmata per lo sviluppo collettivo, che sia durevole e sostenibile. Lo esortava, tra gli altri, il nostro G. Palmieri di Martignano, che contribuì pure lui, anticipando i tempi, ad innalzare l’Albero della libertà, “mostrando che la ricca linfa che sale dalla radice non si è esaurita col passare degli anni, ma è anzi diventata più feconda” (corsivo ripreso dalla Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, riferendosi alla Rereum Novarum di Leone XIII), per ritrovare la crescita economica lungo la strada della riscoperta della “pubblica felicità”.

Tommaso Manzillo

04/09/2011

Bibliografia citata e consultata:

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