“Di democrazia mi sono occupato da sempre”. Così, con una battuta riassuntiva, dice di sé Giovanni Sartori. Ed è vero. Ma proprio perché è vero, questa Democrazia. Cosa è pubblicata nel  2007 fa qualcosa di più che aggiornare la versione del 1993; certo, molte analisi e molti concetti rispondono alle sollecitazioni dei tempi nuovi (imprescindibili, ad esempio, le pagine sull’islam); ma si tratta di analisi e concetti che nascono come riscaldati da una luce iniziale, sempre la stessa, sempre la medesima luce che si accese nel lontano 1957, quando con Democrazia e definizioni Sartori fermò un nucleo di verità originarie che poi lo avrebbero sorretto nelle fatiche successive e che, passando per The Theory of Democracy Revisited (1987) fino alle due edizioni di Democrazia. Cosa è, lo hanno rinfrancato ogni volta che si è trovato ad allestire composizioni via via più larghe e più grandi. E’ come se col tempo egli avesse perfezionato la costruzione del 1957; talora rifinendone meglio gli ambienti, talaltra cambiandone la disposizione interne. Ma le fondamenta, quelle, insistono sempre sul terreno scavato con Democrazia e definizioni. E’ lì che Sartori ha incontrato la scena per cui è nato e dà scintille. I cui riverberi, peraltro, cavalcando sopra libri, tempi ed esperienze diverse, giungono fino a noi per ricordarci verità che paiono cadute dalla nostra memoria come cose remote, come cose fredde, ma che a passarci sopra con la lezione di Sartori prendono un inaspettato calore di vita. Così è, per esempio, quando egli restituisce – ed è restituzione che andrebbe raccolta da chi schiuma disperazione per la (presunta) crisi della morale – così è, dicevamo, quando Sartori restituisce alla moderna democrazia tutto quanto le è stato truffaldinamente sottratto: e cioè le credenze di valore, gli ideali. No, a dispetto dell’interpretazione corrente, il sistema democratico non è un meccanismo senz’anima, né si risolve in un affastellato di procedure neutrali e disponibili per qualsivoglia finalità. “Le democrazie liberali – avverte Sartori – sono creature ‘reali’ prodotte da ideali” (p.53), e precisamente da quegli ideali che costellano l’universo dell’individualismo. Se non si parte da qui, dalla convinzione che “l’individuo sia un valore in sé, indipendentemente dalla società e dallo Stato”, (p.148) se evapora il principio che “la vita di ogni uomo conta, vale ed è sacra” (p.149), allora la democrazia liberale è perduta e non c’è nulla più che possa assicurarne il funzionamento. Attenzione però: perché stiamo discorrendo di democrazia liberale. Siamo dunque in presenza di un corpo con due teste, di cui l’una – quella democratica – pensa l’individuo in un modo e l’altra – la liberale – lo concepisce in un modo diverso. L’individualismo dei democratici esalta l’attività dei singoli che, all’interno dello Stato, prelude alla elaborazione delle leggi. Quello dei liberali, invece, magnifica l’attività dei singoli che si svolge, per così dire, fuori dello Stato, là dove cioè le azioni sono permesse e sfuggono ai comandi e ai divieti del potere statale. Questa duplice accezione di individualismo riverbera i suoi effetti sul concetto di libertà. Per i liberali, “essere liberi” significa godere della facoltà di compiere certe azioni senza esservi comandati o impediti dallo Stato (libertà come non impedimento). Là dove per i democratici “essere liberi” significa essere sottoposti, sì, a comandi e a divieti, ma a comandi e divieti che essi stessi hanno concorso ad elaborare. Purché siano voluti dagli stessi cittadini, i comandi e i divieti non comprimono la libertà, onde l’ideale democratico è che tutti partecipino alla loro formulazione (libertà come partecipazione). Diversamente detto: la libertà liberale è una libertà da (libertà da coazioni esterne, quindi dai comandi e dai divieti statali); la libertà democratica è una libertà di (libertà di partecipare alla creazione dei comandi e dei divieti collettivi). Perché questa diversità? Il fatto è che le due dottrine rispondono a due interrogativi differenti: la prima, la liberale: che cosa significa “libertà” per chi vuole differenziarsi dagli altri e svolgere intera la propria irripetibile originalità? A raffigurarsi così l’individuo, ne viene la necessità di privilegiare il “privato”, perché è appunto qui, in questa sfera libera da vincoli e obblighi, che ciascuno può promuovere la propria realizzazione personale (ecco la libertà da). La teoria democratica, per converso, muove dal seguente quesito: che cosa significa “essere libero” per l’individuo che – assieme a tutti gli altri individui – deve far parte della collettività? Ecco: la collettività. Ma la collettività, per non rovinare nel baratro della disgregazione anarchica, ha bisogno di leggi. Sicché – così ragiona il democratico – se è necessario ubbidire alle leggi, che si obbedisca pure; purché a leggi che recepiscano la volontà e i desideri dei cittadini (di qui la libertà di concorrere alla loro formulazione). La differenza – come spiega Sartori – è che la democrazia “attende alla integrazione sociale”, mentre il liberalismo “apprezza l’emergenza e l’innovazione”. L’uno è vivificato da uno slancio verticale perché celebra chi s’innalza e sopravanza gli altri. L’altra è segnata da un andamento orizzontale perché, sincronizzando gli sforzi individuali e riunendoli in collettività, asseconda di fatto la tendenza all’eguagliamento. Con una formula spiccia (e con tutte le forzature di chi si spiccia) potremmo dire così: che da una parte c’è l’eguaglianza, dall’altra la libertà. E tuttavia, benché rispondano a valori distinti, i due individualismi sono compatibili. Ma ad una condizione: a patto di riconoscere la precedenza del liberalismo sulla democrazia, o – il che fa lo stesso – della libertà da sulla libertà di. La precedenza, si badi, non la preminenza. Non che la libertà liberale sia più importante della libertà democratica e valga di più. Semplicemente, la libertà liberale (la libertà da) viene prima della libertà democratica (della libertà di). E’ una priorità procedurale, non assiologia. Il fatto è che bisogna immaginare il percorso della libertà come un circuito scandito da una serie di tappe successive: la prima tappa è la libertà come non impedimento, la libertà da. Guadagnatala che sia, si può muovere incontro alla libertà come autonomia, alla libertà di. In breve: si deve essere liberi da per essere liberi di; si deve essere liberi dallo Stato per essere liberi di creare le leggi. “La libertà – scrive Sartori – è sempre da ‘affermare’ (votando, partecipando, dimostrando); ma prima occorre che il mio affermare (fare) non sia ostacolato. Alla fine, libertà è libertà di scelta. Ma primo devo essere messo in condizione di scegliere: il che presuppone che il mio scegliere non sia impedito. E dunque, la libertà come non impedimento (al negativo) deve precedere tutte le libertà al positivo: ne è il sine qua non” (pp.158-159). Non solo. Perché se è vero che il principio liberale viene prima del principio democratico, e se è vero altresì che il principio liberale è l’espressione istituzionale del valore-libertà, là dove il principio democratico è il precipitato giuridico del valore-eguaglianza, se è vero tutto questo è giocoforza riconoscere anche la precedenza della libertà sull’eguaglianza. Insomma: proprio perché il tragitto cha va dal “non impedimento” alla “partecipazione” è obbligato e, per così dire, a senso unico, proprio per questo, a senso unico e non reversibile è il percorso che conduce dalla liberta all’eguaglianza: prima la libertà e poi l’eguaglianza. Chi è libero è libero – volendo – di chiedere l’eguaglianza (o, più precisamente, una maggiore eguaglianza). Ma chi è eguale non ottiene perciò stesso una la libertà, né ora nè poi né mai. E ben presto smarrisce la stessa uguaglianza, non avendo la libertà di contestare (e di contrastare) i privilegi della classe dirigente. La libertà, dunque, può essere uno strumento di eguaglianza; ma l’eguaglianza, di per sé, non è tramite di libertà. Donde – ancora una volta – l’importanza prioritaria della libertà e delle regole giuridiche nelle quali essa si sostanzia. Regole giuridiche che scapitano assai nelle pagine di Luciano Canfora dove, una brusca torsione “sostanzialistica”, gli fa derubricare la democrazia dagli ordinamenti costituzionali per consegnarla ad uno qualunque dei regimi che affollano la scena politica. Uno qualunque, capite? L’importante è che il sovrano – eletto o no poco conta, limitato o meno non rileva – l’importante, dicevamo, è che il sovrano, chiunque sia e comunque agisca, cancelli le distanze tra gli uomini e ne promuova l’eguaglianza sostanziale (eccola qui la virata “sostanzialistica” di cui si faceva cenno). Con le sue precise parole: “proprio perché non è una forma, non è un tipo di costituzione, la democrazia può esserci o esserci solo in parte o non esserci affatto, nell’ambito delle più diverse forme politico-costituzionali” (La democrazia. Storia di una ideologia; p. 365). Come dire, dunque, che se in un’accensione di magnanimità il satrapo mesopotamico mulina colpi su colpi per abbattere i superiori e rasare tutto ciò che oltrepassa la misura media, lui, lui non i governanti statutinensi che sono così docili alle differenziazioni economiche, lui e non i parlamentari inglesi che sono così accomodanti coi blasoni di nobiltà, lui, lui solo, deve potersi impancare a campione di democrazia. Conclusione bizzarra, che enunciare significa già confutare! E che lo stesso Canfora confuta quando, prima di rotolare sulla china precipite dell’eguaglianza materiale, scrive che “l’unica e sostanziale pre-condizione della ‘democrazia’ [è] il suffragio universale” (p. 99). Allora, di grazia, il suffragio universale s’appartiene e no all’universo della democrazia? E se vi appartiene, se cioè vi appartiene la regola giuridica che estende a tutti, ma proprio a tutti, i titoli della sovranità, se dunque all’ordinamento democratico è consustanziale questo preciso ritrovato della sapienza giuridica, perché mai espungere la democrazia dai “tipi di costituzione” e svellerne l’ ancoraggio col diritto, e meglio ancora con i diritti, con i diritti al plurale vogliamo dire? Già: perché, se ci pensiamo, anche quando Canfora non si lascia strattonare dai richiami dell’eguaglianza materiale, anche quando batte la strada consueta che è quella della democrazia come del sistema fondato sul suffragio universale e dunque sul consenso dei cittadini, anche allora egli dice la verità, ma non dice tutta la verità, la verità vera e intera. Elevando il suffragio universale a “unica pre-condizione della democrazia” (ricordiamo? sono le sue parole testuali) egli ne coglie un aspetto, ma un aspetto solo, che da solo considerato non è necessariamente il più importante di tutta la vicenda democratica. Certo, per il tramite del suffragio universale, la democrazia riposa sul consenso popolare e i cittadini – la più parte di essi, almeno – dicono di sì alle politiche governative. Ma il loro sì vale, rileva e insomma conta qualcosa solo se e solo quando essi avrebbero la possibilità di dire di no. Il punto è proprio qui: che non c’è consenso se chi deve esprimerlo non ha la libertà del dissenso, e per dissentire bisogna bene che i singoli esercitino alcune fondamentali libertà, prima fra tutte la libertà di coscienza e la libertà di parola. Nelle moderne democrazie, non basta votare le leggi, ancorché a suffragio universale, per dire che quelle leggi sono volute dai cittadini. Prima ancora, occorre che il voto sia libero. “Ma – come è stato egregiamente spiegato – la libera determinazione della volontà individuale (dove per libera determinazione s’intende una determinazione presa di fronte a diverse alternative possibili attraverso la ponderazione di argomenti pro e contro, e non già in situazioni in cui non ci sono alternative … ) presuppone una serie di condizioni favorevoli (riconoscimento e garanzia dei diritti di libertà, pluralità di formazioni politiche, libero antagonismo fra essi, libertà di propaganda, voto segreto) che precedono l’espressione del voto”. Così Bobbio in La regola di maggioranza: limiti e aporie, (Bologna 1981, p. 43). Diversamente, quando non si voglia indulgere a mistificazioni terminologiche, l’atto di deporre la scheda nell’urna non può assolutamente presentarsi coi titoli del “voto”. Che razza di voto potrò mai esprimere quando mi costringono a “scegliere” il candidato unico, che da solo occupa tutto l’arengo politico? Sarà violenza, sarà ricatto, sarà manipolazione, quella scheda sarà tutto fuorché il prodotto della mia autonoma volontà. E per quanto i governanti vorranno tenerla in conto di voto, pure essa rimarrà soltanto l’ombra bugiarda di qualcosa che non c’è (la mia libera preferenza, appunto). Con il che, se non ci inganniamo, ritorniamo al punto di partenza, e cioè alle libertà liberali come premessa della moderna democrazia. Precisamente quelle libertà che si esaltano nella lezione di Constant e sulle quali Canfora passa con ciglio troppo contratto travedendovi né più né meno che il veicolo della ricchezza materiale. E di una ricchezza, peraltro, così assorbente, così ammaliatrice, che spenge la fiammata delle responsabilità politiche, che soffoca nel petto degli uomini ogni respiro di più larga solidarietà e che alla fine consuma ogni cosa nell’inseguimento delle gioie piccine di questa terra. Il tutto, ripetiamo, sotto gli auspici e con la benedizione di Constant la cui formula (“la libertà deve consistere, per noi, nel godimento pacifico dell’indipendenza privata”) viene chiosata così da Canfora: “Indipendenza privata, significa, invero, la ricchezza” p.94). No. Dispiace, ma non è così. Se solo Canfora avesse proceduto con meno frettolosa concitazione e si fosse concesso con maggiore serenità alle idee di Constant, si sarebbe accorto che queste idee muovono un giro di pensiero che è più largo di come egli lo ha rappresentato; si sarebbe accorto, soprattutto, che questo pensiero non è posseduto da un’unica aspirazione – il denaro – che domina tutto e tutto travolge, a cominciare appunto dall’esercizio delle libertà politiche. Si dà il caso, infatti, che Constant, il quale certo non fu un monumento di coerenza, pure non decampò mai da un’ammonizione che sta come a caratteri cubitali sia negli scritti precedenti che nel Discorso del 1818 (e anche oltre, per la verità); e il monito che corre per tutte le sue pagine richiamandole e affiatandole tra loro è sempre lì, in quel che egli scriveva fin dai Principi del 1806: “Se la libertà politica non fa parte dei godimenti individuali che la natura ha dato all’uomo, è proprio tale libertà, tuttavia, che li garantisce. Dichiararla inutile – proseguiva Constant – significa dichiarare superflue le fondamenta dell’edificio nel quale abita”. Pensiero, questo, le cui sonorità si propagano in circolo con lentezza; l’ostinata lentezza, diremmo, delle cose che ebbero una origine lontana e che pare non debbano finire mai. E che di sicuro non finiscono col Discorso del 1818 quando, poche righe prima di quelle che hanno acceso l’insofferenza di Canfora, Constant ribadiva il suo punto, che cioè la libertà individuale è “la vera libertà moderna”. Ma che “la libertà politica ne è la garanzia”. Dunque? Dunque – sono ancora parole di Constant – “la libertà politica è indispensabile”. Con il che, ci pare, andrebbe raddrizzata la curvatura materialistica che s’è impressa al magistero di Constant e perciò stesso lo sdegno dei suoi critici dovrebbe temperarsi di più equanime comprensione.  Intendiamoci: la libertà politica di Constant era pur sempre prerogativa di quanti potessero vantare titoli di proprietà e ostentare accumulo di ricchezze; era dunque una libertà rinserrata nelle angustie del censo e come tale catafratta alle sollecitazioni del suffragio universale. E infatti, come per gli esponenti del primo liberalismo, anche per Constant, “soltanto la proprietà rende gli uomini capaci di esercitare i diritti politici” posto che “coloro che l’indigenza mantiene in un’eterna dipendenza e condanna a lavori giornalieri non sono né più illuminati dei fanciulli in merito agli affari pubblici, né più interessati degli stranieri a una prosperità nazionale di cui non conoscono gli elementi”. Passo perspicuo, non c’è che dire, che proprio per questo accusa evidente il suo limite (o più precisante quello che appare un limite se giudicato sul metro dell’odierna sensibilità). Stando così le cose, molte vicende dovevano trascorrere, molti affanni occorreva superare e molte, molte lotte bisognava sostenere contro coloro che, percependo insidiata l’aiuola dei propri interessi, non si risparmiarono nulla, non gli artifici dialettici benché costruiti sull’inganno e la malafede, non le violenze più crude ancorché legittimate ex post da autorità compiacenti, nulla si risparmiarono quando ci fu da impedire che il voto diventasse diritto di tutti. Il libro di Canfora, in fondo, si segnala proprio per questo: perché a petto di monumentalità celebrative a volte francamente insopportabili, ricorda – e lo ricorda con una documentazione che trascorre dagli atti ufficiali ai fatterelli minuti (eppure quanto rivelatori questi fatterelli!) – ricorda, dicevamo, che la conquista della democrazia non s’è prodotta né spontaneamente né pacificamente e che molto spesso essa è appoggiata sul sacrificio degli ultimi e sulla tomba degli innocenti. Quello che invece Canfora dimentica – e non è dimenticanza da poco – è che, nonostante tutto, la moderna democrazia s’è allestita con un processo di addizione e di aggiunzione, non di negazione; che cioè il guizzo delle iniziali verità liberali non è andato smarrito nei suoi orizzonti, dove anzi lo ritroviamo amplificato nel preciso momento in cui i diritti (compreso il diritto di voto) da privilegi di pochi sono diventati patrimonio di tutti. In questo senso diciamo che la democrazia, almeno sotto il profilo istituzionale, è la continuazione e non già la sconfessione del liberalismo. Non si dà democrazia, insomma, senza la pietra d’appoggio dei principi liberali. Ed ecco perché tutte le volte che questi principi sono caduti sotto l’anatema di altre tradizioni di pensiero (a cominciare dal marxismo); tutte le volte che il deposito della loro sapienza giuridica è stato spazzato via da differenti ritrovati tecnici; tutte le volte che questo è accaduto, puntualmente, con l’implacabile necessità di uno sviluppo logico, i singoli, lungi dall’esaltarsi in una democrazia più compiuta, sono rimasti sacrificati allo strazio della rapina e dell’umiliazione. Non è vero, dunque, quel che vuole Canfora, che cioè “le ‘dure repliche’ della storia non possono cancellare – nell’indagine storiografica – qual è stato il punto di partenza”. E prosegue così: ciò “vale per il socialismo ‘realizzato’ rispetto a quello desiderato” esattamente come “vale per la più desiderabile delle idealità, quella liberale, che è però la più smentita nei fatti se si passa dalle parole alle ‘opere’ (p.430). A parte quella “desiderabilità” liberale che s’ingrana male con il resto del libro ed è concessione che sa di maniera, a parte questo è proprio l’equivalenza che fa sbalestrare il giudizio: certo, difetti storture e miserie hanno abbrutito sia l’una che l’altra forma di organizzazione sociale. Ci mancherebbe! Solo però che da un lato, dal lato liberale, le brutture e le miserie si sono prodotte nonostante le regole del liberalismo; dall’altro lato, dal lato del socialismo realizzato, le brutture e le miserie hanno fatto irruzione quali conseguenze dell’antiliberalismo. Lì dunque l’imperativo di inverare le regole con pratiche coerenti; qui il compito di sostituirle con principi differenti. Questa è la differenza. Ed è la differenza che… fa la differenza.

Gaetano Pecora

Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano 2007.

Luciano Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari, 2006

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