martedì, Marzo 19, 2024

Le ragioni dei “populisti”

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Il sito della Treccani tratteggia il populismo come un “atteggiamento ideologico che, sulla base di principi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi”. Questa definizione è la spia di un cambiamento concettuale. Se, in origine, il movimento populista si sviluppò nella Russia di fine Ottocento con l’obiettivo di promuovere un miglioramento delle classi diseredate che, nella fattispecie, erano costituite da contadini e servi della gleba, con il tempo il concetto ad esso legato è degenerato assumendo una connotazione sempre più negativa, ed è oggi funzionale a quella retorica liberale che, presupponendo (non senza qualche ragione) l’incapacità del “popolo” di occuparsi con cognizione di causa della cosa pubblica, declina pericolosamente sul crinale paternalistico del governo autoreferenziale di una élite intoccabile, la quale si proclama arbitrariamente come l’unica depositaria del bene universale.
L’Unione europea, della quale siamo più sudditi che cittadini, rispecchia esattamente questo tipo di impostazione ideologica. Motivo per cui la nozione di populismo dovrebbe essere recuperata in un’accezione positiva, considerandola cioè come espressione di un movimento il cui scopo sia un riavvicinamento dei cittadini alle istituzioni da cui dovrebbero essere protetti e rappresentati, processo reso attualmente inattuabile dalla presente struttura tecno-burocratica dell’Unione. Continuare a dipingere i movimenti contrari al suddetto assetto come nemici dell’Europa è, a nostro avviso, una grave mistificazione e una profonda distorsione della realtà.
Innanzitutto perché occorre interrogarsi seriamente sulle motivazioni che spingono tali formazioni ad avanzare critiche così serrate contro l’Unione e l’Euro, quest’ultimo vero e proprio strumento di dominio su popoli inermi, costretti alla fame attraverso lo scatenamento, scientemente pianificato per mezzo della leva monetaria, della crisi economica indotta al fine di costringere ad una contrazione salariale foriera di una distruzione di valore e di ricchezza totalmente insensata e senza precedenti. In secondo luogo, occorrerebbe una altrettanto ragionata riflessione sul fatto che proprio i fautori di tale sistema, questa pletora di zelanti e dogmatici europeisti che senza un briciolo di capacità argomentativa sbandierano ai quattro venti lo slogan del più Europa, ne stanno compromettendo irrimediabilmente le basi, macchiandosi di una responsabilità gravissima: il ritorno della diffidenza e dell’odio intraeuropeo, fenomeno derivante da una insensata politica economica che sta letteralmente devastando interi Paesi, i quali, senza la gabbia dei vincoli dell’eurozona, avrebbero già da tempo avuto la possibilità di uscire dalla crisi attuando politiche economiche tarate non solo sui parametri macroeconomici dei loro sistemi, ma anche sulle loro peculiari eredità culturali. In terzo luogo, liberiamoci definitivamente della retorica che vede l’Unione europea come baluardo della pace continentale. In effetti, come ricorda Jacques Sapir in un suo articolo, essa è stata persino una “causa di conflitto, precipitando ieri la disintegrazione dell’ex Yugoslavia e la guerra civile che ne è susseguita. Bisogna ricordare che la causa essenziale di questa disintegrazione fu l’attrazione dell’Ue sulla Slovenia e la Croazia. L’istituzione di un piano di stabilizzazione, i cui effetti venivano percepiti in modo diverso  tra le Repubbliche della Yugoslavia, ha attizzato l’opposizione tra la Croazia e la Serbia. Eppure, è proprio la prospettiva di un’adesione rapida all’Ue che ha convinto i dirigenti sloveni e croati a fare la secessione. Lo stesso fenomeno è oggi in opera in Ucraina”.
Questi spunti ci permettono di avanzare la ragionevole certezza che il possibile fallimento del processo di unificazione non può essere addebitato all’irrompere dell’euroscetticismo. Quest’ultimo semmai ne è solo la conseguenza ultima e più naturale, in quanto, chi abbia un minimo di oggettività e di capacità di leggere i dati economici, sa che il fallimento è già avvenuto, è nella realtà dei fatti, e i numeri lo sanciscono senza alcuna possibilità di appello. Le prossime elezioni europee del 25 maggio, per quel che possano contare, renderanno presumibilmente visibili le contraddizioni di cui ormai è portatore il sistema, contraddizioni di cui i nuovi movimenti cosiddetti populisti non possono che prendere atto nella prospettiva di una loro radicale eliminazione. Già soltanto per questo, una loro affermazione non solo non sarebbe da temere, ma sarebbe persino auspicabile.

Davide Parascandolo

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